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domenica 25 maggio 2008

"GOMORRA" di Matteo Garrone, 2008

Non bisogna farsi trarre in inganno. Gomorra sembra un bel film, ma è solo un lavoro ben fatto.
Garrone, che molti anni fa vinse un premio al festival cinema giovani di Torino, non è cambiato molto. Lo stile resta quello del suo primo lungometraggio; allora fece notizia il fatto che un giovane regista si occupasse di temi sociali, oggi fa notizia perchè il suo film è tratto da un bestseller.
Gomorra si lascia guardare: in alcuni momenti funziona, in altri meno, ma le 2 ore e mezzo scorrono.
Tuttavia, da qui a parlare - come ovviamente molti fanno - di "maestro" del cinema ne passa. Con tutto il rispetto, Rossellini, Antonioni e Fellini erano di altro spessore. Non è però un problema di classifiche e graduatorie. E'
piuttosto un problema di intensità: il difetto dei nuovi registi italiani è che
sembra vivan
o una realtà un pò troppo filtrata. A Napoli
Gomorra (film) non sconvolgerà nessuno, anche se se ne parlerà
in tv, fra studenti universitari, o in qualche ristorante etnico alternativo.
Perchè se davvero si ha voglia di scavare, indagare, smuovere, RISCHIARE, occorre per prima cosa mettersi a nudo di fronte al pubblico, fare in modo cioè che il pubblico si fidi di te. Diversamente, restano il mestiere e un pò di talento. Ciò che differenzia Gomorra da Primo amore (film di Garrone del 2004) è perciò il soggetto. Un soggetto forte, attuale, durissimo.
Da questo punto di vista meglio allora cercare in qualche negozio di dvd ben fornito il documentario Biutiful cauntri, che tratta il problema dei rifiuti in Campania. A differenza di Gomorra però, sporcandosi un pò di più le mani.


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martedì 1 gennaio 2008

"1977. IMMAGINI PER UN DIARIO RITROVATO" di Benini, Lo Sardo, Malfatto


SENZA ARTE NE' PARTE
Miseria di un documentario tv

Per il ciclo La grande storia è andato in onda ieri sera (30 dicembre 2007) su raitre un documentario intitolato 1977. Immagini per un diario ritrovato. Gli autori accreditati sono ben tre: Roberto Benini, Francesco Lo Sardo e Roberto Malfatto. Quest'ultimo in un'intervista ha dichiarato:

Volevamo restituire un clima, far vivere quelle emozioni anche a chi all’epoca non c’era ed è stato possibile grazie al materiale di privati, oltre a quello delle Teche Rai, che siamo riusciti a ritrovare. Non volevamo fare un film ‘politico’, esprimere giudizi anche se molte immagini sono abbastanza eloquenti perché il pubblico, un’idea, possa farsela da solo. Non è un film solo sul movimento ma in generale su un periodo che a nostro parere ha segnato la storia molto più del ‘68.

Ebbene, l'obiettivo che i tre si erano posti è stato certamente mancato.
E' sempre alquanto fastidioso scoprire che persone che hanno vissuto quell'anno così particolare siano capaci di ridurre un'esperienza collettiva di enorme rilevanza e significato storico come quella del movimento del 77 in pochi e scontati luoghi comuni. In questo caso specifico, la complessità e il peso di quell'esperienza non si riesce più a porre in relazione con la realtà vissuta in quanto la prima è costretta nella carreggiata di una sorta di autostrada della visione in cui ogni asperità viene accuratamente appianata dal rullo compressore dell'ideologia buonista di cui i tre autori sono portatori consapevoli. Ecco allora come comunisti, fascisti, politici, giornalisti, studenti, femministe, poliziotti e carabinieri finiscono uniti "tutti insieme appassionatamente" in uno spettacolo di amore e morte che ha da comunicare un solo inutile messaggio: "Anche noi [i "registi"] c'eravamo". Dove e come non ci è dato saperlo.
Se poi si scende su un piano tecnico-estetico la situazione, se possibile, peggiora. Il film non è altro che una confusa accozzaglia di immagini d'epoca (tra l'altro per il 90% viste e riviste) sostenute da un'interminabile e ridondante susseguirsi di celeberrime canzoni rock, e commentate da un testo scritto ad hoc, per giunta "recitato" da un'attrice da filodrammatica con tanto di leggio d'ordinanza, e che senza alcun rispetto per l'intelligenza dello spettatore, viene pure inquadrata mentre esegue i "pezzi di bravura".
Nel film è totalmente assente una qualunque idea portante degna di essere chiamata tale, così come sono assenti senso della durata dell'inquadratura, del ritmo, dell'intensità, ipotesi di montaggio ecc. In breve, è assente un benchè minimo straccio di stile. Uno dei vertici di tanta miseria ce lo forniscono le immagini del funerale di Giorgiana Masi, quando durante il corteo funebre un sapiente rallenti (o una zoomata, non ricordiamo più con precisione) indugia su uno dei giovani che porta la bara, che altri non è che il famoso Francesco Rutelli... E che dire poi dell'epilogo, in cui una selezione delle immagini appena mostrate vengono rimontate (si fa per dire) sulle note di Like a rolling stone (anch'essa, senza pietà, malamente tranciata a metà per farci riascoltare il ritornello)?
Il film si conclude con una frase, falsa, ottusa e paradossale come tutto il documentario: "Di tutto ciò che ha caratterizzato quest’anno, resterà solo il ricordo della violenza".
Falsa perchè per sfortuna degli autori ci sono ancora molte persone che di quell'anno, oltre a ricordare tante altre cose, sono capaci di rivendicarne tutta la ricchezza e le contraddizioni (e non solo la parte commestibile, quella buona per la tv); ottusa perchè vorrebbe farci credere che scivolare sulla superficie degli eventi equivalga a parteciparvi (e allora puntuale il rammarico che la Storia non riesca a piegarsi al bisogno di una storia a proprio uso e consumo) ; paradossale perchè il documentario è costruito su immagini di scontri, morti e funerali, e dunque legittimamente ci chiediamo cosa può avere impedito agli autori di mostrare in alternativa alla violenza 50 minuti di indiani metropolitani, sedute di autocoscienza, assemblee, radio libere ecc.

Non ci resta a questo punto altro da fare che suggerire a chi fosse interessato ai temi che il documentario di raitre avrebbe voluto affrontare di recuperare, per cominciare, alcuni film di Alberto Grifi (Parco Lambro, Anna, Lia, Michele alla ricerca della felicità), e in qualche modo di contribuire affinchè il "diario ritrovato" di Benini, Lo Sardo e Malfatto venga nuovamente perduto. E sperare che a qualche insegnante illuminato non venga mai in mente di mostrarlo ai suoi allievi per spiegare gli anni settanta in Italia.


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venerdì 23 novembre 2007

"LA RAGAZZA DEL LAGO" di Andrea Molaioli, 2007

La ragazzo del lago è un film sopravvalutato, ma ci teniamo a dire che questo giudizio non si basa su facili e ideologici preconcetti. In fondo siamo indulgenti, specie con gli esordienti, e perciò siamo riusciti a perdonare al regista la serie di inquadrature-spot della prima parte del film (vieni anche tu a visitare il Friuli Venezia-Giulia...), abbiamo accettato il fatto che la sceneggiatura fosse firmata dall'infaticabile Sandro Petraglia (chi si ricorda di Auranche e Bost?), siamo riusciti a comprendere gli inevitabili compromessi necessari a fare sì che un'opera prima venisse presentata al festival di Venezia e distribuita nelle sale di tutta Italia, ma terminata la proiezione siamo comunque rimasti delusi, e nessuno può volercene se siamo andati a vedere il film aspettandoci dal regista per prima cosa un'idea di cinema, o quantomeno di messinscena.
Li abbiamo visti in centinaia di film quei lenti e avvolgenti movimenti di macchina sul personaggio solo e seduto in cucina (o sdraiato, come in La ragazza del lago), ma nessuno, nemmeno Bertolucci, ci ha mai spiegato perchè la cinepresa non resta ferma. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di stile, o di ispirazione, ma queste sono nella maggioranza dei casi solo parole compiaciute, frasi fatte, e null'altro.
A questo punto potrebbe non sembrare ma in verità non è che qui ci interessi demolire il film di Andrea Molaioli in particolare, che per altro si fa guardare, complice la trama e la solita ottima interpretazione di Toni Servillo. Ci interessa piuttosto sottolineare come, riprendendo l'esempio del movimento di macchina di cui sopra, sia divenuta una costante il fatto che il vertice massimo cui riescono a giungere i nomi nuovi del cinema italiano altro non sia che la debole copia di un clichè. Per cui nulla in questo film riesce a essere memorabile, nulla riesce a sorprenderci, nulla è mai davvero interessante. Il cinema di Molaioli e di tanti altri cineasti emergenti più che una "finestra sul mondo" appare come un riflesso sulla finestra di casa: tanti credono che ciò che questa incornicia sia il mondo esterno, pochi si accorgono che il riflesso proviene dal televisore in salotto.


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mercoledì 14 novembre 2007

"LA GIUSTA DISTANZA" di Carlo Mazzacurati, 2007

A volte si parla bene di certi film italiani solo perché superano il livello di indecenza media a cui siamo ormai abituati da tempo, per lo meno rispetto ai film che vengono distribuiti al cinema. Spesso poi le lodi vengono accentuate se il film in oggetto viene realizzato da cineasti progressisti, sensibili alle problematiche sociali e politicamente riconducibili a un’area non apertamente reazionaria . E’ il caso per esempio dei film di Carlo Mazzacurati.
Per la sua ultima pellicola La giusta distanza in molti si sono ritrovati concordi nel salutare il film come l’opera di un regista ritrovato, come una piacevole sorpresa rispetto alle ultime fatiche del cineasta veneto. Probabilmente tutto questo è vero, ma non sufficiente comunque a fare di La giusta distanza un film memorabile. Quasi tutto quello che viene mostrato nel film è infatti poco più che una corretta illustrazione di una sceneggiatura molto attentamente elaborata e costruita. Quasi tutto appare pianificato in ogni dettaglio, col risultato che ogni inquadratura finisce con l’esistere solo per se stessa, senza altro rapporto con le altre inquadrature se non quello direttamente funzionale alla narrazione. Il microcosmo descritto appare blindato dalle esigenze della finzione filmica e dalla necessità di trovare le forme più delicate per esplicitare il giudizio apparentemente neutro del regista su quanto mostrato, e si ha la sensazione durante la visione del film che la realtà, fosse anche quella dei sentimenti recitati degli attori, non farà mai irruzione sulla pellicola, non incrinerà mai il disegno precostituito in sceneggiatura, non lascerà cioè tracce dalle quali ripartire per costruire un discorso altro. Ancora una volta, dunque, un film dai toni pacati ma che vorrebbe, attraverso il contrasto con la durezza degli eventi mostrati, scuotere la coscienza dello spettatore, che invece non viene mai graffiata, smossa, sollecitata. A meno che lo spettatore non sia simile per temperamento al regista o si riconosca nel giovane protagonista del film, l’aspirante giornalista che alla fine abbandona il piccolo paesino del delitto, solo, ma a suo modo fiero che giustizia sia stata fatta, e a suo modo fiero di avercela fatta.


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mercoledì 7 novembre 2007

"IN QUESTO MONDO LIBERO" di Ken Loach, 2007

Negli ultimi anni ci eravamo un po’ stufati dei film di Ken Loach, il regista “compagno” autore di film di denuncia sociale. Ci eravamo stufati perché non ci è mai interessato andare al cinema per trovare conforto alle nostre sofferenze, per scoprire che c’è ancora qualcuno che parla di quello che non funziona nella società occidentale, per identificarci con l’operaio o l’alcolizzato di turno. Non ci è mai interessato andare al cinema per riconoscerci sfruttati, ma consolati dal fatto che qualcuno lo racconta, e poi tornare al lavoro (quando lo si ha) aspettando il prossimo film-programma tv-romanzo-partito – di sinistra – a cui delegare le nostre frustrazioni.
Sotto questo punto di vista gli ultimi due film di Ken Loach, invece, ci hanno piacevolmente sorpreso.
In Il vento che accarezza l’erba e In questo mondo libero l'autore fa propria la frase, per dirla alla Godard, di Ici et ailleurs: “Troppo facile e troppo semplice dire che i ricchi hanno torto e i poveri ragione”.
E così se in In questo mondo libero la protagonista è ancora e sempre un personaggio alla Ken Loach (stavolta una ragazza sui 30 anni, figlia di operai, separata e con figlio a carico, disoccupata e in cerca di riscatto), ciò che nel film emerge non è la semplice denuncia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quanto lo svelarsi dei meccanismi dentri ai quali si resta imprigionati nel momento in cui il legittimo desiderio di vivere una vita dignitosa si esprime attraverso la ricerca dell’affermazione individuale. Il finale amaro sgombra il campo dalla pia illusione che sia sufficiente una qualsiasi riforma del welfare per risolvere almeno in parte i problemi del lavoro e della società in generale; soprattutto dall’illusione di essere migliori di chi ci sfrutta solo perché siamo sfruttati.
Siamo ancora e sempre lontani dalla bellezza stilistica di un film come Kes (l'opera prima di Ken Loach, tuttora insuperata) ma non si può non riconoscere al regista inglese di essersi finalmente allontanato dai propri clichè più stucchevoli, e di avere maturato una visione della società contemporanea più disincantata, e appunto per questo meno conciliante. Non in linea perciò con quanto oggi viene definito "di sinistra".


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mercoledì 29 agosto 2007

"VENERI ROSSE" di Allan Dwan, 1956

Degli oltre 250 noir americani usciti nel periodo che va dal 1940 al 1959, Veneri rosse (Slightly scarlet) viene ricordato per essere uno dei pochi girato a colori (gli altri sono Femmina folle, Niagara e Il dominatore di Chicago). A dirigerlo è un veterano di Hollywood, Allan Dwan, canadese di origine, il quale cominciò la carriera di regista nel 1911 per concluderla 50 anni dopo, nel 1961, con quasi 400 titoli a lui accreditati.
Il soggetto di Veneri rosse è tratto da un romanzo di James M. Cain, e narra i destini incrociati di due sorelle e due banditi durante le elezioni del sindaco di una città californiana.
Aldilà della trama, comunque interessante, emerge lo stile della messa in scena. Quasi interamente girato in studio e quasi sempre in interni, Dwan sceglie di privilegiare colori e illuminazione del set sul modello dei coevi splendidi melodrammi di Douglas Sirk, ma con finalità assai diverse. In Veneri rosse i tagli di luce orizzontali e le ombre nette e spigolose non rivelano le pulsioni erotiche costrette nelle gabbie del conformismo middle class americano come in Sirk, ma in maniera più funzionale accentuano il carattere brutale, spietato e corrotto che assume la lotta per il potere e per il controllo della città. Molto spesso è il buio ciò che circonda i protagonisti, che agiscono all'interno di lussuosi appartamenti e ville sul mare perfettamente arredati dove però i fiori nei vasi sono sempre appassiti, mentre la cinepresa inquadra il set da punti di vista e distanze che ricordano più il cinema degli anni venti che quello degli anni cinquanta.
La violenza domina e condiziona le esistenze dei personaggi, e viene mostrata con una durezza per l'epoca certamente inconsueta. Ottima infine la scelta degli attori, con John Payne perfetto nel ruolo dell'arrampicatore senza scrupoli e Arlene Dahl in quello della sfortunata ladra ninfomane.


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lunedì 27 agosto 2007

"LA SCONOSCIUTA" di Giuseppe Tornatore, 2006

Molti anni fa ebbe rilievo un articolo in cui Goffredo Fofi si scagliava contro il cinema di quelli che lui chiamò i "Tornatores" (Tornatore e Salvatores), che in quel periodo venivano osannati dai media italiani grazie agli inattesi oscar per Nuovo cinema paradiso e Mediterraneo, denunciando - se la memoria non mi inganna - il progressivo appiattimento della critica nostrana su posizioni di regime, che all'epoca parlava dei due registi sopra citati come dei nuovi Fellini del cinema italiano. Era quello un periodo - primi anni novanta del Novecento - in cui le poche sale rimaste aperte tornavano ogni tanto miracolosamente a riempirsi di spettatori nei fine settimana e il lunedì sera (con il biglietto ridotto per tutti), dopo la catastrofe degli anni ottanta. C'era un pò di ottimismo, insomma. Detto questo, quale era il difetto di Tornatore e Salvatores, secondo Fofi? Il difetto era quello di essere come i loro critici adulatori, cioè accomodanti e conciliatori, dei Pippo Baudo in erba, alla fine dei conti non dei veri intellettuali. Probabilmente era così, ma a questo punto va detto: Salvatores, e soprattutto Tornatore, per quanto manieristi, per quanto "sponsorizzati" sono due registi che si sono consapevolmente mossi con l'obiettivo di occupare uno spazio lasciato vuoto all'interno del panorama cinematografico nazionale - il cinema come spettacolo - mentre decine di altri si affannavano a realizzare film "impegnati" per la sempre meno tollerante élite piccolo borghese di sinistra, raccontando di piccolissimi drammi famigliari, di solidarietà fra ricchi e poveri perchè i soldi non sono tutto, di delicate e commoventi storie d'amore fra muratori pugliesi e prostitute albanesi. Dal punto di vista della sopravvivenza loro e del cinema mainstream, avevano ragione i "Tornatores".

Fra i due cineasti, il più ambizioso e dotato, quello che davvero vorrebbe essere Fellini ma che per fortuna ha capito di non esserlo, è Giuseppe Tornatore. Il suo ultimo film La sconosciuta, non solo diretto ma anche scritto e sceneggiato, è un thriller, un buon thriller. Per non lasciare dubbi sui modelli di riferimento, le musiche citano Psycho e le immagini Vertigo. Nei momenti più a rischio di una trama che poteva offrire molti alibi, Tornatore calca sì la mano, ma senza deformare, mostra ma senza cedere al voyeurismo più gretto. Dirige molto bene un cast di qualità per gli standard attuali e soprattutto utilizza il montaggio, per creare inquietudine o suspense, a seconda dei casi. Dopo la prima ora molto è già stato svelato e si procede per colpi di scena più o meno riusciti piuttosto che per reale sviluppo drammaturgico. Il film perde la compattezza iniziale, ma tuttavia non ci si annoia.
Ispirato da un trafiletto su un giornale, La sconosciuta è anche la storia dell'inferno quotidiano di una schiava nell'Italia del duemila.

Un pò come era stato per Michele Placido con Romanzo criminale, Tornatore riesce nella lodevole impresa di offrirci un film molto più dignitoso o al limite più "di sinistra" di tutto quanto quel cinema (Moretti, Benigni, S. Guzzanti, Luchetti ecc.) che tanto piace alla società civile di oggi. Dato il contesto attuale, non è poco.


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venerdì 10 agosto 2007

"L'OMBRA DEL POTERE" di Robert De Niro, 2006

14 anni dopo il buon esordio di Bronx, De Niro torna alla regia con L'ombra del potere, ovvero trent'anni nella vita di un funzionario CIA. Protagonista assoluto del film, nei panni della spia Edward Wilson, Matt Damon. L'affresco epico e tragico del cuore nero USA, sul modello stilistico de Il padrino di Coppola (ma viene in mente anche il Nixon di Stone) a De Niro non riesce molto bene. Troppi i temi che emergono ma che non riescono a svilupparsi, pochi i momenti in cui le immagini mostrano qualcosa oltre alle parole.
L'aspetto privato del protagonista rapportato a quello pubblico è il motore narrativo della pellicola, che a poco a poco svela le contraddizioni che il mestiere di spia porta con se. L'impassibilità di Matt Damon è funzionale al ruolo interpretato, ma la recitazione sua e di tutti gli altri attori (spicca Angelina Jolie nella parte della moglie di Wilson) non toglie e non aggiunge nulla al film. Tra i molti temi suggeriti il parallelismo CIA-Nazismo è quello più suggestivo e esplicitato. Tuttavia De Niro non scende quasi mai in profondità, non osa il confronto con i fantasmi, non scardina le certezze, e in fondo mostra cose che già sappiamo tutti, senza capire bene se il film voglia essere un saggio sulla banalità del male, la descrizione del potere WASP o una parabola biblica. Certo, non si tratta di un'opera di basso livello, ma il senso di inquietudine, di vuoto e di solitudine che il film riesce a comunicare non è abbastanza per un'opera che nasceva con ben altre ambizioni.


p.s. Una nota per gli amanti del cinema classico: non ne siamo sicuri, ma ci piace immaginare che la scena in cui la dirigenza della CIA canta e danza con le gonne hawaiiane sia una citazione della danza della morte in La regola del gioco.


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