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mercoledì 20 novembre 2002

Presentazione "Paisà"

PAISÀ

(Italia, 1946, b/n, 125’)

R.: Roberto Rosselini

s: Victor Haines, Marcello Pagliero, Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini, Vasco Pratolini

sc.: Sergio Amidei, Roberto Rossellini, Federico Fellini

f.: Otello Martelli

mus.:Renzo Rossellini

m.: Eraldo Da Roma

int.: Carmela Sazio, Robert Van Loon, John Klitzmiller, Alfonsino, MariaMichi, Far Moore, Harriet White, Renzo Avanzo, Bill Tubbs, dale Edmonds

p.: OFI/Foreign film Production/Capitani Film

"Cerco di reagire contro la debolezza che rende gli uomini prigionieri volontari -per non dire vittime-, per vigliaccheria o incoscienza, del loro desiderio di essere in armonia con tutto e con tutti. Per idolatria della regola viviamo nel continuo terrore di diventare l’eccezione, perché siamo abituati ad identificare l’uomo di cui si parla con l’uomo di cui si parla male" (R. Rossellini). Paisà non è un film neorealista come, del resto, non lo è nessun opera di Rossellini. Eccezione per qualsivoglia etichetta o periodizzazione, l’immensa opera prima e unica riconoscibile solamente nella sua complessità, e nella sua ripetizione, di uno dei maggiori artisti italiani del ‘900 è immediata costruzione di un punto di vista, di un pensiero soggettivo che inchioda lo sguardo alle sue responsabilità. L’indeterminatezza spazio-temporale, la dispersione in frammenti narrativi che tornano sul conflitto appena concluso, la regia spaziosa che si carica di elementi e personaggi forzatamente casuali, si adagiano su di un’aspirale che nella sua accelerazione conduce alla brutalità e ai silenzi dell’ultimo episodio (una delle più belle pagine di cinema di tutti i tempi). Immagini, quelle di Porto Tolle, che nella loro disperata voce, non ascoltata all’interno del film, si rivolgono a noi. Nella situazione più difficile di una morte senza lamenti, siamo costretti all’eversione, allo slancio creativo che costringe a una scelta; far finta di non vedere oppure credere a questo mondo, alle azioni e ai modi che possono cambiarlo per far sì che le acque del Po non si richiudano su se stesse, cancellando la lotta e la memoria.

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mercoledì 6 novembre 2002

Presentazione "Senso"

SENSO

(Italia 1954, col, 115’)

R.: Luchino Visconti

sc.: Luchino Visconti dal racconto di Camillo Boito

f.: G. R., Aldo, Robert Krasker

mus.: Giuseppe Verdi, Anton Bruckner

m.: Mario Serandrei

int.: Alida Valli, Farley Granger, Massimo Girotti, Heinz Moog, Rina Morelli, Marcella Mariani

p.: Lux Film

Opera cardine per la fine del ‘cosiddetto neoralismo’, Senso è un complesso contenitore scenico che esalta in maniere differenti argomenti e tratti stilistici assai distanti dalla realtà, storica e cinematografica, dell’epoca. L’Italia risorgimentale, ricostruita tra melodramma e riferimenti pittorici, accoglie nello sfarzo consumato dell’ambientazione viscontiana un’inquieta dispersione dai due volti. La dimensione intima e soggettiva dei protagonisti, che si muovono in maniera autonoma e inconsapevole nella riedificazione storica, è specchio di un’immagine dilaniata dall’estraneità di una società che ignara ripetutamente la propria presenza. I sentimenti divengono facili e incomprensibili. La politica e la guerra sibilano silenziosi come un sottofondo, soffocati dal vano e debole inseguimento di una vaga tensione personale. Un film ‘bello’, ancora eccezionalmente seducente, che proprio per la sua vistosità restituisce il senso macabro dell’abbandono, la paura di rimanere al di fuori del mondo, al di fuori di sè.

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mercoledì 30 ottobre 2002

Presentazione "Banditi a Orgosolo"

BANDITI A ORGOSOLO

(Italia 1961, b/n, 75’)

R., m., p.: Vittorio De Seta

s., sc.: Vittorio De Seta, Vera Gherarducci

f.: Vittorio De Seta

mus.: Valentino Bucchi

scg.: Elio Balletti

int.: Michele Cossu, Peppeddu, Coccu, Vittorina Pisano

L’opera più nota e riconosciuta del più grande documentarista italiano è, come tutto il suo cinema, un lungometraggio fatto di nulla che si presenta come anomalo e straordinario nel panorama del cinema nazionale. La ricostruzione di una storia realmente accaduta, e rivissuta dagli stessi tragici protagonisti, è un’autoproduzione coraggiosa che sin dalle prime battute condanna l’inesistenza dello stato, delle sue leggi, della sua autorità. Orgosolo non è un luogo della fantasia pronto ad accogliere una semplice storia, ma una terra senza pane dove le forze dell’ordine, sorrette come sempre da un’ignoranza e una legittimità incompatibile con le molteplici realtà quotidiane, divengono silenziosa natura del crimine che porta la miseria a combattere con se stessa, generando violenza e brigantaggio tra i deboli vittime dei propri simili, coinvolti in una tragica lotta per la sopravvivenza. Lo stile di De Seta accompagna senza giudizio una dimensione che di fatto, per la sua stessa esistenza, è una condanna senza appello alla malcelata cecità di un’istituzione senza volto che da sola crea contemporaneamente occupazione con divisa e brigantaggio. La barbagia sarda assume un ruolo determinante. Lo spettatore è costretto a perdersi senza comprendere un orientamento impossibile, assoluto ed essenziale vuoto di umanità lasciato a se stesso, reso con una perizia che lascia il cinema senza finzione, senza documentarismo. Ciò che stordisce è la semplicità, immediato accadere e svolgersi delle barbarie, di una regia timida e precisa che, fotografata dallo stesso autore, mostra, nel portare a termine un film dove i protagonisti sono i veri briganti, i luoghi della disperazione che ci vengono accuratamente nascosti ma, grazie a un film come Banditi a Orgosolo, tornano nella memoria e nella realtà quotidiana con estrema forza.

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mercoledì 16 ottobre 2002

Presentazione "I fidanzati"

I FIDANZATI

(Italia, 1963, bn, 81’)

regia di Ermanno Olmi


Un “piccolo” e misconosciuto capolavoro del cinema italiano degli anni sessanta.

Il film di Olmi racconta la storia di un operaio di Milano che in pieno boom economico e grazie alle sue capacità professionali viene trasferito a lavorare in un grande stabilimento siciliano. La “promozione” giunge in un momento di crisi del rapporto sentimentale fra l’operaio e la fidanzata. Al termine del film questo rapporto a distanza rivelerà tutta la sua fragilità.

Una storia di sradicamento, con protagonista per una volta un settentrionale, che mette in rilievo le contraddizioni sul piano personale dello sviluppo economico capitalistico selvaggio degli anni sessanta in Italia, raccontata con una freschezza di stile e originalità davvero inconsueti anche per quel periodo storico così entusiasmante dal punto di vista cinematografico. Non è un caso se un regista come Jean-Luc Godard indicò sulle pagine dei Cahiers du cinéma proprio “I fidanzati” come miglior film dell’anno. Un film dove l’emozione non esplode mai, dove i toni sono ovattati e in cui i drammi sembrano semplici coincidenze, ma dove non per questo la miseria di un mondo ormai già destinato a divorare qualunque valore non riconducibile al denaro appare meno disperata.

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mercoledì 2 ottobre 2002

Presentazione "Simon del deserto"

SIMON DEL DESERTO

(Simón del deserto, Messico 1965, b/n, 45’)

R. s.: Luis Buñuel;

sc.: Luis Buñuel, Julio Aleandro;

f.: Gabriel Figueroa;

mus.:Raùl Lavista;

m.: Carlos Savage;

int.: Claudio Brook, Silvia Pinal, Hortensia Santovena, Enrique del Castello, Francisco Reiguera;

p.: Gustavo Alatriste.

Alla fine sarà l’urlo di Silvia Pinal a rimanere, e non servirà certo a Simon per comprendere com’è ancora possibile “sopportare la vita fino in fondo”. Proprio l’ultima battuta del film torna a cancellare un apparente senso di gioco e spensieratezza che Buñuel sembra voler costantemente concedere alla dissoluzione irreversibile innescata dalla cecità degli in-fedeli. È proprio questa mortificazione l’atto di ‘fede’ negli uomini, il disgusto che non può lasciarci sorridere fino in fondo perché sappiamo di non essere estranei alle sventure su cui danziamo spensierati. Non si sta scherzando con i santi ma con la società che comodamente evita le colonne per livellare quel caldo deserto che tutto risolve, l’orizzonte vuoto e piano che libera dai complessi e dai dubbi: se non c’è più niente l’uomo ha vinto se stesso, circondandosi di miraggi e di felicità, perpetuando l’accettazione del compromesso letale. I giochi sono fatti, basterà affermare di ‘sopportare’ mentre il mondo va a rotoli, mentre ci stiamo sgretolando. I dieci anni che separano i miracoli di Ordet e Viaggio in Italia da quelli dello stilita si sentono tutti, pare che sia trascorso un secolo. La colonna è oramai abbandonata e nessuno sembra accorgersi che sia mai esistita; se Dreyer e Rossellini ci hanno detto che un prossimo diverso e rivoluzionario esiste ma non si può filmare, Buñuel mostra la rivoluzione fallita, insiste nella necessità di filmarla per svestire la ripetizione dalla forza del potere, per sottrarre allo spettatore la banalità della svista e dell’accidentale. Di fronte a ciò non è più possibile abbassare il capo, la visione diventa irrinunciabile presa di coscienza e istantaneo slancio rivoluzionario.

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Manifesto "Simon del deserto"

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Manifesto seconda stagione - I parte


Il 18 dicembre il film "Una vita difficile" non sarà proiettato; verrà recuperato il 2 aprile 2003

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mercoledì 10 luglio 2002

Manifesto "Non aprite quella porta"

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mercoledì 3 luglio 2002

Manifesto "Rosemary's Baby"

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mercoledì 19 giugno 2002

Presentazione "Sicilia!"

JEAN MARIE STRAUB

DANIÉLE HUILLET

SICILIA!

(Italia/Francia 1999, b/n, 66')

La semplicità resta, nell'era degli accumuli, incomprensibile. In un mondo rovesciato si crede facile il difficile e viceversa. Straub-Huillet rivoltano-rivoluzionano il mondo e le persone restituendo a essi la posizione e il ruolo naturali. Costantemente il loro cinema è frainteso nel peggiore dei modi e questo film ci testimonia per l'ennesima volta che la società è costruita anche per questo. Chi riesce a speculare sui dotti e molteplici riferimenti letterari (Elio Vittorini che tornerà in Operai, contadini e forse nei prossimi film) -e non- che Sicilia! potrebbe stimolare, come per tutti i loro film, riesce solamente a godere di se stesso, delle quattro pagine che ha letto e dei milioni di film che ha visto, ricordando di aver consumato più industria culturale del proprio vicino di banco, ritornando meccanismo preparato e indispensabile alla discesa inarrestabile della società dell'accumulo. Tra i libri e le figurine non c'è più differenza. Questi occhi ancora credono di avere di fronte un cinema intellettuale, snob, letterario, che solo chi nuota nell'industria culturale può comprendere e valutare, con un certo fastidio e disprezzo, tale senza appello. Sicilia!, come tutto il cinema di Straub-Huillet, smaschera chi gode del proprio essere e del proprio sapere, condanna le riflessioni complesse di chi si sente autorizzato a sentirsi consapevole spettatore, pagante e senza colpe, di un mondo che rotola sempre più velocemente. Questo è un cinema primitivo, di un'imbarazzante semplicità, rivoluzionario. Un cinema per analfabeti, ciechi, ignoranti, scapestrati, che ci mostra quanto e come la 'cultura' è vincolata dalla sua rinnovata natura capitalista che rende impossibile la comunicazione, e le parole, per il ruolo consolidato di impartire ordini di consumo e di pensiero. Sicilia! è un arma sempre carica e puntata con estrema precisione contro tutto questo.

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mercoledì 12 giugno 2002

Presentazione "Furore"

FURORE (The Grapes of Wrath)

John Ford

USA 1940, b/n, 129’

Adattamento dell’omonimo romanzo di John Steinbeck. Sceneggiatura di Nunnally Johnson. Fotografia di Gregg Toland. Musica di Alfred Newman. Montaggio di Robert Simpson. Suono di George Leverett e Roger Heman. Produzione di Darryl F. Zanuck.

Con Henry Fonda, John Carradine, Jane Darwell, Russel Simpson, John Qualen, Ward Bond, Grant Mitchell, Charlie Grapewin, Doris Bowdon, Frank Sully.

Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Pratiche Editrice, Parma 1990

- P.T. Che cosa ti attratto in Furore?

- J.F. Mi piaceva, tutto qua. Avevo letto il libro – era una bella storia – e Darryl Zanuck aveva una buona sceneggiatura. Tutta la cosa mi interessava: parlava di gente semplice, ed era una storia analoga alla carestia in Irlanda, quando la gente veniva cacciata dalle terre e lasciata vagabondare per le strade a morire di fame. Questa storia poteva avere a che fare con tutto ciò – parte della mia tradizione irlandese – e mi piaceva l’idea di questa famiglia che se ne va per il mondo a cercare una vita migliore. Era una storia che arrivava al momento giusto.[…] Gregg Toland fece uno splendido lavoro con la fotografia – non c’era assolutamente nulla di nulla da fotografare là, neanche una cosa bella – solo pura e semplice fotografia.

Stati Uniti nella Grande Depressione. Il mito della frontiera è finito e il sogno agricolo è soppiantato dall’industrializzazione sfrenata e dall’urbanismo.

Ford sostiene la propria fede nei valori della tradizione, la terra, una vita semplice, ma soprattutto denuncia la corruzione della classe politica, il cinismo degli industriali e le ingiustizie che la gente deve subire a causa di una politica agraria disastrosa.

La famiglia di Tom è costretta a trasferirsi ad Ovest, in California, un tempo la terra promessa di chi voleva far fortuna, oggi distesa di campi governativi costruiti per accogliere la massa di profughi che hanno perduto la loro terra, acquistata da azionisti privati senza scrupoli.

Tom, appena uscito di prigione, segue la sua famiglia, ma non riesce a rimanere indifferente alle sofferenze che loro e altri come loro devono subire per non morire di fame. Disorientato e confuso, Tom partecipa quasi per caso agli incontri che un gruppo di lavoranti organizza per mettere in piedi scioperi e rivolte. A causa dei suoi precedenti, quando la polizia scopre le trame del gruppo, è costretto a fuggire e a lasciare la sua famiglia.

Le parole della madre di Joad alla fine del film sono più eloquenti di qualsiasi commento. La donna dice al figlio ricercato per aver tentato di ribellarsi: “Ci saremo sempre. La gente come noi non muore. Nessuno può spazzarci via”.

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Manifesto quinta rassegna

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mercoledì 5 giugno 2002

Presentazioni "La via lattea"

LA VIA LATTEA

(La Voie Lactée)

(Francia – Italia 1969)



Regia : Luis Buñuel ; Sceneggiatura : Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; Fotografia: Christian Matras; Montaggio: Louisette Hautecœur; Produttore: Serge Silberman.

Interpreti: Paul Frankeur (Pierre), Laurent Terzieff (Jean), Alain Cuny, Michel Piccoli, Pierre Clementi, Delphine Seyrig

Uno dei luoghi comuni da sfatare sul cinema di Luis Buñuel è relativo alle componenti irrazionali e oniriche dei suoi film, divenute la giustificazione storica per tutti i senza talento che pensano di fare del cinema o dell’arte mettendo un titolo sotto al nulla appeso al muro o in corso di proiezione. Niente in Buñuel è lasciato al caso, e niente è frutto di visioni e ispirazioni inafferrabili. Al contrario, tutto tende a risultare il più concreto e materiale possibile. È sufficiente analizzare uno qualunque dei film di Buñuel per rendersi immediatamente conto dell’ estremo rigore con cui questi vengono immaginati, scritti e girati. L’idea vagamente metafisica diventata prepotentemente alla moda fra i mediocri e innocui (quando non dannosi) “artisti” dell’epoca postmoderna, per cui una macchia su un muro, una ripresa obliqua, una frase sgrammaticata realizzate sull’onda di uno slancio “creativo” dall’ultimo degli ignoranti e arroganti figlio di papà che si rivendica pittore, regista, scrittore è un’opera d’arte, non vale certamente per uno come Buñuel. Tutti i suoi film, da Un Chien andalou a Quell’oscuro oggetto del desiderio, sono opere costruite da una mente razionale, limpida e acuta, capace di smascherare attraverso le possibilità offerte dal mezzo cinematografico la falsa coscienza, il moralismo, la barbarie della classe borghese. Senza dubbio Buñuel possedeva anche molto talento e molta intelligenza, ma ciò, di per sè, non sarebbe sufficiente a fare di lui un artista del cinema. Lo scarto, come sempre, si trova nella visione del mondo e nel modo con cui ci si rapporta ad esso. La via lattea, un film che affronta direttamente questioni teologiche (dall’eucarestia alla trinità), offre una visione del mondo in cui si oppongono posizioni dogmatiche e antidogmatiche, di cui a farne le spese sono come sempre gli innocenti. Se l’indeterminatezza poetica è quell’elemento irriducibile che svela una verità particolare e parziale e la mostra non come dato assoluto, ma come tensione verso di essa, La via lattea è forse il più teorico ma anche il più profondo dei film di Buñuel, in quanto - nella sua apparentemente delirante struttura narrativa – mostra con esemplare chiarezza corsi e ricorsi storici dei vari aut-aut sintetizzabili nella formula o con me o contro di me. Quanti impiegati dell’arte hanno almeno la consapevolezza di avere scelto di stare dalla parte del padrone, dunque di avere perso la loro misera battaglia in partenza?

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«L’idea di un film sulle eresie della religione cristiana risaliva alla lettura, poco dopo il mio arrivo in Messico, della summa di Menéndez Pelayo Gli eterodossi spagnoli. Questa lettura m’insegnò molte cose che non sapevo, in particolare sui martiri eretici, convinti della loro verità quanto i cristiani, se non di più. Nel comportamento dell’eretico è proprio questa convinzione di possedere la verità, nonché la stranezza di certe invenzioni che mi ha sempre affascinato. In seguito avrei trovato una frase in cui Breton, malgrado la sua avversione per la religione, ammetteva che il surrealismo riconosce di avere “certi punti di contatto” con gli eretici.

Tutto quello che si vede e si sente nel film si basa su documenti autentici. Il cadavere dell’arcivescovo riesumato e bruciato pubblicamente (perché dopo la morte erano stati trovati, scritti di suo pugno, testi viziati dall’eresia) fu nella realtà quello di un arcivescovo di Toledo che si chiamava Carranza. Iniziammo con un lungo lavoro di ricerca al centro del quale troneggiava il Dizionario delle eresie dell’abate Pluquet, poi scrivemmo la prima stesura nell’autunno del 1967, al parador di Cazorla in Spagna, nella provincia di Jaén. Eravamo soli, Carriére e io, fra le montagne dell’Andalusia. La strada si fermava all’albergo. Dei cacciatori partivano all’alba per rientrare solo a notte fatta, portando ogni tanto il dolce cadavere di uno stambecco. Per tutto il giorno non parlavamo che della Trinità, della duplice natura di Cristo, dei misteri della Vergine Maria. Sibelrman accettò il progetto, cosa per noi incredibile, e terminammo lo script a San José Purua nel febbraio-marzo 1968. Messo per un attimo in pericolo dalle barricate del maggio’68, il film venne girato a Parigi e nella regione circostante durante l’estate. Paul Frankeur e Laurent terzieff incarnarono i due pellegrini che vanno a piedi, ai nostri giorni, a Santiago de Compostela, e che lungo la strada, liberati dal tempo e dallo spazio, incontrano tutta una serie di personaggi che illustrano le nostre eresie principali. La via lattea, di cui a quanto sembra facciamo parte, si chiamava una volta “il sentiero di San Giacomo” (cioè Santiago) perché indicava la direzione della Spagna ai pellegrini che arrivavano da tutta l’Europa del Nord. Di qui il titolo. In quel film, dove ritrovavo Pierre Clementi, Julien Bertheau, Claudio Brook e il fedele Michel Piccoli, lavorai per la prima volta con Delphine Seyrig, attrice notevolissima, che a New York durante la guerra avevo fatto saltare sulle ginocchia. Per la seconda –e ultima- volta mettevo in scena Cristo stesso, impersonato da Bernard Verley. Ho voluto mostrarlo come un uomo normale, che ride e corre, che sbaglia strada, che si dispone perfino a farsi la barba, molto lontano dall’iconografia tradizionale.

E dato che parliamo di Cristo, mi sembra che nell’evoluzione contemporanea della religione Cristo si sia impadronito di un posto privilegiato nei confronti delle altre due persone della Santissima Trinità. Si parla solo di lui. Dio Padre esiste ancora, d’accordo, ma molto vago, molto lontano. Quanto al povero Spirito Santo, nessuno gli bada e adesso fa l’accattone.

Malgrado la difficoltà e la stranezza del soggetto, il film, grazie alla stampa e agli sforzi di Silberman, senza dubbio il miglior promotore cinematografico che io abbia mai conosciuto, ottenne un successo più che onorevole. Come Nazarin, suscitò reazioni molto contrastanti. Carlos Fuentes lo considerava un film di lotta, antireligioso, mentre Julio Coltàzar arrivava a dire che gli sembrava pagato dal Vaticano.

Questi processi alle intenzioni mi lasciano sempre più indifferente. Per me La via lattea non era pro questo né contro quello. Il film, oltre alle situazioni e alle dispute dottrinarie autentiche che mostrava, mi sembrava innanzitutto una scorribanda nel fanatismo in cui ciascuno si aggrappava con forza e intransigenza alla propria porzione di verità, pronto a uccidere o morire per lei. Così mi sembrava che la via percorsa dai due pellegrini si potesse applicare a qualsiasi ideologia politica e perfino artistica». (Luis Bunuel)


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Manifesto "La via lattea"

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giovedì 30 maggio 2002

Presentazione "La società dello spettacolo"

LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO

(Fra 1973, b/n e col)

R.: Guy Debord

Che cosa è lo spettacolo

Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi ma le merci e le loro passioni/Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto/…lo spettatore non si trova a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto/Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno/Nello spettacolo una parte del mondo si rappresenta davanti al mondo, e gli è superiore. Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione/Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato da immagini/Lo spettacolo è una guerra dell’oppio permanente per far accettare l’identificazione dei beni alle merci/Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo/Il mondo contemporaneamente presente e assente che lo spettacolo fa vedere è il mondo della merce dominante su tutto ciò che è vissuto/ Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso/Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine/

Che cosa è lo spettacolare

Là dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia/E’ l’unità della miseria che si nasconde dietro le opposizioni spettacolari/Le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato sono nello stesso tempo reali, in quanto traducono lo sviluppo ineguale e conflittuale del sistema, gli interessi relativamente contraddittori delle classi o delle frazioni di classi che riconoscono il sistema, e definiscono la loro partecipazione al suo potere/La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto/

Che cosa è la società dello spettacolo

La coscienza del desiderio e il desiderio della coscienza sono parimenti in quest’unico progetto che, nella sua forma negativa, vuole l’abolizione delle classi, vale a dire il controllo diretto dei lavoratori su tutti i momenti della loro attività. Il suo contrario è la società dello spettacolo, dove la merce contempla se stessa in un mondo da essa creato/

Frammenti de La società dello spettacolo (1967) di Guy Debord

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Manifesto "La società dello spettacolo"

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mercoledì 29 maggio 2002

Presentazione "Mani in alto"

MANI IN ALTO

Rece do góry

(seconda versione, 1981)

Regia: Jerzy Skolimowski; Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski, Andrzej Kostenko; Fotografia: Witold Sobocínski, Andrzej Kostenko; Montaggio: Z. Piórecki, G. Jasińska, K. Rutkowska, J. Ignatcenko; Musica: K. Penderecki, K. Komeda; Produzione: Gruppo «Syrena», Polonia, 1981

Interpreti: Jerzy Skolimowski (Andrzej Leszczyc, «Zastawa», se stesso nel prologo); Joanna Szczerbic («Alfa»); Adam Hanuszkiewicz («Romeo»); Bogumil Kobiela («Wartburg»); Tadeusz Lomnicki («Opel Rekord»).

Per cominciare, è doverosa una premessa sulle vicissitudini che hanno segnato il percorso di questo film. A due settimane dalla presentazione ufficiale al festival di Venezia del 1967 (dove il film partiva favorito per il Leone d’oro) Mani in alto venne proibito dalle autorità polacche, e ritirato dal concorso. Solo quattordici anni più tardi, nel 1981, il film fu liberato dalla censura e potè quindi finalmente essere visto. Skolimowski, per l’occasione, oltre ad aggiungere un prologo girato nella sua casa di Londra e a Beirut, decise di rimontare il film, di tagliarne alcune sequenze e di effettuare un viraggio a seppia della pellicola. Dopo una tiepida accoglienza al festival di Danzica (Skolimowski sperava in un sostegno politico da parte di Solidarnosc, che invece gli fu negato), il film venne presentato in un cinema di Varsavia, dove però rimase in cartellone solo un giorno. I carri armati sovietici erano infatti appena entrati in città, ragion per cui Mani in alto fu nuovamente ritirato dalla circolazione e mai più distribuito.

Cinque amici (quattro uomini e una donna), dopo una festa, salgono su un treno merci, diretti non si sa bene dove. Il viaggio è l’occasione per un tirare un bilancio della vita di ciascuno di essi, e più in generale del rapporto di una generazione con il proprio passato. Questa, in sintesi, la trama del film. Skolimowski, che non si è mai trovato a proprio agio con le narrazioni tradizionali, anche in questo caso dà libero sfogo a una creatività impulsiva unica nel suo genere, personalissima e affascinante. Mani in alto avanza per invenzioni plastiche e visive sorprendenti, dando continuamente la sensazione allo spettatore di essere di fronte a un’opera che utilizza il mezzo cinema con una libertà che nulla ha a che vedere con il vezzo narcisistico del discorso metacinematografico. Un film “innocente”, che è costato al suo autore l’esilio dalla propria terra ed una carriera, da allora, sempre in salita.

p.s. La proiezione non si potè tenere per cause di forza maggiore, e non riuscimmo a recuperarla.

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Manifesto "Mani in alto"

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mercoledì 15 maggio 2002

Presentazione "Fortini/Cani"

FORTINI/CANI di Jean-Marie Straub e Daniéle Huillet

Franco Fortini scrisse le sue pagine nel 1967, quando, nei primi giorni di giugno, le truppe israeliane e quelle egiziane si scontrarono nel deserto del Sinai. I mezzi di informazione occidentali diedero una versione dei fatti totalmente falsa, sostenendo che fossero stati gli arabi ad aver aggredito Israele. Molti paesi, fra i quali l’Italia, espressero solidarietà e appoggiarono Israele, rendendosi immediatamente complici della politica espansionistica del governo di questo paese, avamposto dell’imperialismo occidentale.

Fortini scrive queste pagine contro quanti si sono precipitati in soccorso dei padroni e dei vincitori, sostenitori di Israele che egli definisce cani del Sinai. “La guerra di Israele scatenava nei nuovi, nei recenti piccolo borghesi italiani, la volontà di essere dalla parte buona, di liberarsi dalla colpa fascista, di scaricare sull’Arabo l’odio accumulato contro la generazione dei padri…”
Sin dall’inizio, l’atteggiamento filoisraeliano è servito alle coscienze europee per ripulirsi dal ricordo dei Lager, per riconciliarsi con la memoria e con la storia. Ancora oggi, per farsi perdonare d’aver perpetuato, collaborato o assistito inerme allo sterminio di un popolo, l’Occidente legittima l’occupazione, lo sfruttamento e la morte della Palestina attuata da Israele.

Straub-Huillet chiedono a Fortini autore di farsi lettore e attore del suo testo. Mettendolo a confronto con le sue pagine scritte, lo invitano a riflettere sugli eventi passati per comprenderne il contraccolpo attuale. Fortini è condotto dai due cineasti a ripensare a quel se stesso che ha scritto e che già nel suo testo ha affrontato le umiliazioni subite un tempo nell’Italia fascista, il disprezzo diffuso verso l’arabo, l’esaltazione della civiltà occidentale che Israele incarna e promuove in terra barbara.
Straub-Huillet pongono il problema dell’oggi e di un tempo, del passato e del presente che devono incontrarsi per la costruzione del futuro e dell’utopia, il comunismo per i due cineasti. Il passato non va ritrovato per essere semplicemente assunto, ma va osservato alla luce di ciò che accade oggi. Come Fortini, Straub-Huillet non operano una valorizzazione della memoria in sé, poiché essa ha valore nel momento in cui viene rielaborata e utilizzata come strumento dell’agire contemporaneo. La Storia si traduce in azione di resistenza – dell’uomo, delle cose, dei luoghi - e in traccia che ha resistito. Essi ri-tracciano e rintracciano la Storia perché essa possa continuare a vivere, a essere vissuta e a sostenere l’uomo nella sua lotta di liberazione del mondo.
Il confronto con il passato si concretizza nella ricerca meticolosa delle tracce, di ciò che ha resistito ed è rimasto nonostante tutto. I luoghi sono i testimoni viventi di eventi passati, spazi che hanno resistito e che portano con sé memoria di ciò che è accaduto. Le Alpi Apuane, su cui insistono le panoramiche Straub-Huillet, nascondono e conservano la traccia di ciò che è stato, sono il luogo dove antifascisti e partigiani sono stati uccisi per aver lottato. I movimenti delle panoramiche scavano la terra e fanno riaffiorare i morti seppelliti, i cadaveri sotto terra taciuti e non svelati, ma preservati da un piano che si fa tomba.
La rilettura di Fortini si inserisce in quest’ottica di ricerca dei luoghi e di rielaborazione degli eventi. Non un ritorno nostalgico alle proprie radici, ma un confronto, spesso difficile, con le proprie origini. Nelle sue pagine, egli racconta la sua storia personale, figlio di un avvocato ebreo, antifascista e quindi perseguitato, ma la contempo si mette in relazione con la Storia, analizzandola alla luce degli accadimenti contemporanei. Fortini interpreta la realtà e la quotidianità in termini di lotta fra le classi, “ultimo dei conflitti visibili, perché è il primo per importanza”.

Per Straub-Huillet, come per Fortini, disegnare il futuro significa mostrare le lacune del reale, le assenze e le mancanze. Non oggi, ma ieri e domani è il pensiero che domina e attraversa il film. Il passato per il futuro, la Storia e la memoria perché ci sia ancora speranza e azione.
Israele, terra di un’ideologia imperialista che distrugge e mistifica le tracce, e la Palestina, luogo che resiste, terra dell’uomo che resiste. Lotta di classe, che a dispetto di molti ancora esiste, e resistenza - in lotta con il presente - che esiste già e sarà fino alla vittoria.


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Manifesto "Fortini/Cani"

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Manifesto quarta rassegna

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mercoledì 13 marzo 2002

Presentazione "Detour"

DETOUR

(USA 1946, b/n, 65')

R.: Edgar Ulmer

i.: Tom Neal, Edmund MacDonald, Tim Ryan

Autentico e noto b-movie, Detour racconta un viaggio estremo verso una meta impossibile, quella felicità del peggior sogno americano chiamata California. La Hollywood che ha chiuso le porte alla fidanzata di Al è la stessa da cui Ulmer si tiene a debita distanza. Quest’opera sporca, povera e imprecisa, si mostra immediatamente come alternativa allo star-studio system: nessun volto noto, nessun titolo, pochi spazi, nessun esterno, una trama assurda contro ogni logica, una durata non convenzionale. Ciò che resta sono le briciole del protagonista; colpito da quel destino violento e infallibile ci racconta la sua storia da un bar; le immagini scorrono ineluttabilmente come un lungo flashback mostrandoci qualcosa del vicino passato che né lui né noi possiamo modificare. Forse l’errore del pianista Al è stato quello di volersi inserire in un cinema luccicante che non gli apparteneva e che non poteva capirlo; il caso è meno casuale di quanto si possa credere e la forza con cui ancora oggi questo film si allontana con ogni mezzo da un cinema per sognatori fatalmente artificiali si sente ancora oggi e rende Detour ancor più classico del cinema non visto da Al.

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mercoledì 6 marzo 2002

COPERTINA 1° CD: NOUVELLE VAGUE


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Manifesto terza rassegna

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mercoledì 27 febbraio 2002

Presentazione "Il ladro"

IL LADRO (The wrong man)

Regia: Alfred Hitchcock. Soggetto: Maxwell Anderson (dal suo racconto The true story of Emmanuel Balestrero). Sceneggiatura: Maxwell Anderson e Angus McPhail. Fotografia: Robert Burks. Scenografia: Paul Sylbert e William L. Kuehl. Musica: Bernard Herrmann. Montaggio: George Tomasini. Interpreti: Henry Fonda (Christopher Emmanuel Balestriero, “Manny”), Vera Miles (Rose, sua moglie), Anthony Quayle (O’Connor), Charles Cooper (il detective Matthews), Richard Robbins (Daniel, il colpevole), John Heldabrant (Tomasini). Produzione: A. Hitchcock (Warner Bros). Durata: 105’. USA, 1956.

The wrong man, ovvero un uomo che per sbaglio si ritrova colpevole di reati mai commessi.

All’inizio del film, è Hitchcock stesso a presentare questa storia come un fatto realmente accaduto.

New York 1953.

Un evento imprevisto sconvolge l’ordine della vita del protagonista. Inizia così l’itinerario di Emmanuel Balestrero. La casualità, supremo pericolo, irrompe nel tranquillo universo borghese per sconfiggerne ogni principio di sicurezza. Il flusso ripetitivo dei gesti e dei fatti quotidiani si disgrega insieme all’illusione di aver conquistato una dimensione inattaccabile e sicura. Come altri eroi hitchcockiani, Emmanuel si crede immune e estraneo alla violenza, alla morte, all’ingiustizia. La rottura dell’ordine operata dal caso lo porta invece a dover affrontare e accettare l’inevitabile precarietà e disarmonia di ciò che lo circonda. Non sempre è possibile allontanare e rimuovere facendo finta che tutto vada per il verso giusto.

Se però altri personaggi hitchcockiani prendono di petto la sfida lanciata loro dal caso, agendo attivamente per non subire la cattiva sorte, Emmanuel segue impotente il corso degli avvenimenti, lasciandosi trascinare senza ribellarsi. Sembra non voler capire che ciò che gli viene ripetuto dal poliziotto (“Un innocente non ha mai nulla da temere”) non può essere che un’enorme menzogna propinata dalle istituzioni.

Alla fine il presunto colpevole paga a caro prezzo il riconoscimento della sua innocenza. La follia della moglie distrugge l’armonia che pareva ristabilita. L’ultima ritratto della famigliola felice a spasso sui viali alberati e soleggiati della Florida è talmente stereotipato che svela l’ipocrisia di ciò che mostra. Hitchcock sceglie di restare a distanza, riprendendo il quadretto da lontano, come se temesse di mettere a fuoco la tragica sorte dei suoi protagonisti.

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Manifesto "Il ladro"

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mercoledì 20 febbraio 2002

Presentazione "Un condannato a morte è fuggito"

UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO (Francia 1956)

Un Condamné à mort s'est échapé

R.: Robert Bresson

s.: dal racconto di André Devigny

sc.: Robert Bresson

f.: Léonce-Henry Burel

mus.: Wolfang Amadeus Mozart

scg.: Pierre Charbonnier

m.: Raymond Lamy

int.: Françoise Leterrier, Roland Monod, Jacques Ertaud, Charles Le Clainche, Maurice Beerblock;

p.: Société Nouvelle des Etablissements Gaumont/Nouvelles Editions de Film

Forse una delle evasioni più scontate con cui è possibile imbattersi. Banale, ovvia, che nell'esito e nella riuscita non ha in realtà nulla da dirci. A partire da un titolo che tutto svela e non lascia il tempo di dubitare, lo spettatore non può perdere tempo dietro ai giochetti della suspence. Fontaine fuggirà. Escluso il prologo dove il protagonista 'ci prova' d'istinto (quasi che il miraggio concreto della libertà sia veramente a portata di mano per tutti), il film è interamente girato nel carcere nazista di Lione. Lo scetticismo negato intorno ad una possibile Liberazione, in cui l'azione di un condannato a morte Resistente non ci mostra l'eccezione ma un punto di partenza, uno stato d'animo sempre sicuro di non poter più che vincere, mette Bresson in condizione di poter rendere l'operazione più rischiosa e stupefacente (l'evasione) come un gesto semplice. Quindi la minuzia di Fontaine che pare una formica a volte annoiata per quei piccoli lavoretti artigianali necessari per preparare la fuga. L'insistenza sull'indispensabilità e l'importanza del lavoro metodico e 'autoregolato' ci viene anch'esso mostrato come un'altra condizione banalmente determinante per poter finalmente cominciare ad agire e a pensare al di fuori delle mura che ci hanno costruito intorno. Il volto di Fontaine ha quasi perso espressività e sentimenti, tutto della sua persona è concentrato sull'azione, sull'analisi. Poi i compagni, entrambi indispensabili, sia nel fallimento che nell'aiuto. Un'opera che il tempo ed il mercato non potranno travisare è ancora lì a raccontarci come Fontaine continuerà a scappare ogni istante da tutti i carceri. La sua azione di Resistenza al di fuori di essi è nelle nostre mani.

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Manifesto "Un condannato a morte è fuggito"

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mercoledì 13 febbraio 2002

Manifesto "La grande illusione"

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mercoledì 6 febbraio 2002

Presentazione "Il buco"

Il buco (Le trou)

di Jacques Becker, Francia 1959

Da un romanzo di Jose Giovanni adattato per lo schermo da Jacques Becker, Jose Giovanni, Jean Aurel. Dialoghi:Jacques Becker, Jose Giovanni. Interpreti: Michel Constantin (Geo), Jean Keraudy (Roland), Raymond Meunier (Monsignore), Philippe Leroy (Manu), Mark Michel (Gaspard). Fotografia: Ghislain Cloquet. Scenografia: Rino Mondellini. Montaggio: Marguerite Renoir, Geneviéve Vaury. Una coproduzione italo-francese: Titanus, Playart, Filmsonor. Produttore esecutivo: Serge Silberman. Durata: 1h55


In piena esplosione del fenomeno nouvelle vague (il 1959 è l’anno de I quattrocento colpi e Hiroshima mon amour) Jacques Becker realizza il suo tredicesimo e ultimo lavoro (gravemente malato, morì appena prima dell’uscita del film). Poco conosciuto in Italia e mai (per fortuna) realmente rivalutato dalla critica ufficiale, Becker rappresenta un po’ la sintesi fra classicismo e modernità del cinema francese al suo grado più elevato. Le sue ultime opere, e Il buco in particolare, sono come sospese in una temporalità altra che, astraendo il contesto a favore di una narrazione tradizionale, riduce i meccanismi dei rapporti interpersonali ai minimi termini, quasi trasformandoli in paradigmi, esemplificazioni di dinamiche sociali comuni.

Il buco, prima di essere un film sulle carceri, è un film sulla libertà, dunque su un concetto, o meglio ancora su un immaginario. La bellezza del film e l’arte di Becker si danno nel momento in cui l’idea si trasforma in azione concreta, in lotta collettiva. Come più o meno scriveva Serge Daney, i detenuti – gli unici protagonisti del film - sembrano combattere meno per la loro libertà individuale che per una ideale libertà universale. E questo avviene nel divenire del film, nello scorrere del tempo, quando finalmente lo spettatore comprende che non si tratta tanto di scoprire se i detenuti vinceranno o perderanno la loro battaglia, quanto capire che ciò che davvero conta è che i detenuti stanno vincendo.

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