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mercoledì 28 aprile 2004

Manifesto ciclo "Ritratti femminili"

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mercoledì 21 aprile 2004

Manifesto "Le prime bande" (di PAOLO, e non Piero, Gobetti...)

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mercoledì 14 aprile 2004

Presentazione "I racconti della luna pallida d'agosto"

UGETSU MONOGATARI di Kenji Mizoguchi

(I racconti della luna pallida d’agosto)

Giappone, 1953

Produzione: Daiei (Kyoto). Produttore: Masaichi Nagata. Regia: Kenji Mizoguchi. Sceneggiatura: Yoshikata Yoda e Matsutaro Kawaguchi, da due racconti di Akinari Ueda estratti da “Ugetsu monogatari” (“Racconti di pioggia e di luna”): “Casa fra gli sterpi” e “La passione del serpente”; e “Décoré” e “Il letto 29” di Guy de Maupassant. Fotografia: Kazuo Miyagawa. Luci: Kenichi Okamoto. Montaggio: Mitsuzo Miyata. Scenografia: Kisaku Ito. Costumi: Yoshimi Shima. Musica: Fumio Hayasaka e Ichiro Saito. Musica tradizionale: Tamekichi mochizuki e il suo insieme. Biwa: Umehara. Suono: Iwao Otani. Assistente: Tokuzo Tanaka. Consigliere per i dialoghi: Isamu Yoshii. Consigliere per il vasellame: Zengoro Eiraku. Coreografia: Kinshich Kodera. Consigliere per i costumi e gli usi dell’epoca: Kusune Kainosho. Interpreti: Masayuki Mori (Genjuro), Kinuyo Tanaka (Miyagi), Sakae Ozawa (Tobei), Mitsuko Mito (O-Hama), Machiko Kyo (la principessa Wakasa), Kikue Mori (Ukon, la governante), Ryosuke Kagawa (il capo del villaggio), Kichijiro Ueda (mercante d’abiti), Sugisaku Aoyama (il vecchio prete), Nanbu Syozo (il prete shinto), Ramon Mitsusaburo (il capo delle truppe Niwa), Ichisaburo Sawamura (Genichi, il figlio di Genjuro e Miyagi).

Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 1953

Arte e vita

La vera condizione dell’uomo è di pensare con le proprie mani […] Il pericolo non è dei nostri utensili, ma nella debolezza delle nostre mani

Jean-Luc Godard, Historie(s) du cinéma

Ugetsu monogatari stabilisce un legame profondo tra il regista e la sua opera. Mizoguchi porta sullo schermo la storia di un uomo che, volendosi artista, vive la sua creazione come una trasgressione nei confronti del quotidiano. Genjuro rifiuta la banalità della vita che gli è toccata a sorte, per conoscere le bellezze e i pericoli della gloria che tanto lo attirano non permettendogli di apprezzare ciò che gli è stato donato. Tuttavia, in un mondo dove tutto è tentazione, la creazione si dimostra l’unica tentazione salvatrice, la sola che sia nobile; inoltre il fatto di essere artista, alla fine converte la sua sete di successo e denaro in ricerca della bellezza e della morale. Per essenza l’artista è un essere impuro che diviene il più puro di tutti, grazie a un percorso esistenziale che gli permette di portare a compimento l’intelligenza che è in suo possesso.

Qui il conflitto tra realtà e bellezza è presentato in modo esplicito dal regista, il quale si propone di descrivere il fatale processo dell’esistenza e insieme della creazione artistica. Mizoguchi ci mostra, attraverso Genjuro, l’uomo di fronte alla vita che deve scegliere tra realtà e apparenza e allo stesso tempo l’artista di fronte alla sua arte, in preda alla tentazione di preferire la bellezza pura ma menzognera, piuttosto che la bellezza della verità e la verità della bellezza. La vita e l’arte sono qui intimamene legate poiché non sono che la stessa e unica esperienza, una esteriore, l’altra interiore, una oggettiva, l’altra soggettiva.

Questo film esce pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e inoltre il regista sceglie di ambientare le vicende in uno spazio e in un tempo anch’essi devastati dalle lotte civili. La dieresi interna e il contesto socio-politico in cui il film è inserito suggeriscono la possibilità che il cineasta si sia proposto di riflettere non solo sulla relazione tra arte e vita in senso generale, ma più precisamente sul ruolo dell’artista durante la guerra. Ci si interroga allora sul senso della creazione artistica in un momento in cui all’uomo è richiesta invece un’azione nel concreto. Mizoguchi non propone un connubio tra politica e arte e nemmeno suggerisce l’urgenza di un’arte sociale o militante. Il regista dimostra, nel suo stesso modo di pensare e fare cinema, che il problema è nell’atteggiamento dell’artista, il quale deve consegnare la sua coscienza a chi fruisce. Il discorso di Mizoguchi si costituisce dunque a partire dal senso di responsabilità che, precedentemente assunto dal creatore, deve poi trasferirsi necessariamente allo spettatore. Questo non può permettersi di rimanere indifferente alla sfida che l’opera gli propone, ma deve comprendere che essa lo riguarda e lo coinvolge in prima persona. L’artista non cadere nella tentazione di trovare rifugio e consolazione nel mondo dell’arte. Il cineasta condanna il ripiegamento egoistico nella ricerca di una bellezza fine a se stessa e mostra invece la necessità di un’arte in cui la manifestazione di tale bellezza abbia un effetto concreto e diretto sulla realtà

Bellezza e terrore

Può anche darsi che soltanto l’orrore, sia pur colto nella finzione,

mi abbia permesso di sfuggire al sentimento vuoto della menzogna

George Bataille, L’impossibile

La tragicità del personaggio di Wakasa risiede nella sua bellezza affascinante e ripugnante insieme. Bellezza che annienta, terrore delizioso e per Genjuro letale, poiché lo distoglie dal senso del tempo e dal dovere della memoria; ideale assoluto a cui tende l’artista e insieme pericolo per l’uomo che alla sua vista rimuove la presenza del reale.

La principessa è il luogo dove eros e thanatos possono convivere, è il tempo in cui essi dividono il medesimo spazio, quello della bellezza che innamora l’uomo tanto da distruggerlo. “L’inutile beauté”, di cui scrive Adorno, condanna alla sventura e costringe alla scelta tra destini ugualmente fatali queste dee terrene perseguitate dall’istinto irrefrenabile a distruggere se stesse e i rapporti umani in cui sono coinvolte. Fatal beauté – diceva Godard – come l’istante fatale: ciò che avviene davanti al nostro sguardo e tuttavia lo distrae. Istante della bellezza e bellezza dell’istante che fa passare il tempo su di noi manifestando il nostro essere-per-la morte e al contempo ci allontana dal pensiero della morte.

La principessa è una chimera che scompare nello stesso momento in cui non può più abitare la mente di Genjuro. Essa non ha vita di per sé; non essendo altro che apparenza fisica, è solamente superficie ed è deperibile. La sua immagine spettrale svanisce al contatto con la verità delle cose, poiché l’opera che accede solamente alla bellezza e non al reale, è destinata a perire come chi l’ha creata. “Sempre l’istante fatale verrà per distrarci”, scriveva Queneau, distrarci dal pensiero della morte e anche strapparci dalla vita per trascinarci nel nulla.

Quell’istante fatale che per Genjuro significava il passaggio definitivo alla morte viene però a coincidere con il momento della nascita di un nuovo individuo. Nello stesso luogo – la bellezza di Wakasa – in cui il protagonista si libera alla sua dimensione onirica e si distacca completamente dal mondo oggettivo, si sveglia e ritrova la realtà vera. Morte e vita appartengono allo stesso spazio e allo stesso tempo, quell’istante fatale in cui l’uomo sceglie l’oblio o la memoria, il sogno o la realtà, l’indifferenza o la responsabilità.

La morte di Miyagi

La morte, così difficile, così facile

Paul Éluard

Vi sono alcuni aspetti della realtà che Mizoguchi lascia volontariamente fuori campo, rendendo esplicita la sua profonda preoccupazione sulla possibilità di mostrare o invece negare alla vista, tutto ciò che in qualche modo potrebbe accecare lo sguardo dello spettatore. Il suo rifiuto non deriva però dal desiderio di fuggire e evadere dalla realtà, ma dimostra il tentativo di non spingere mai la sua regia più in là dell’esteticamente accettabile. Il suo sguardo si interroga costantemente sul modo in cui si deve guardare la realtà e sistematicamente nega allo spettatore, ma ovviamente non alla sua comprensione, ciò che la sua vista non potrebbe sopportare. La responsabilità di mostrare non conduce a una ripresa indiscriminata, anzi spesso si traduce nel dovere di occultare, nella necessità di fermare o posare lo sguardo altrove. In questo senso produce una dialettica costante tra visibile, infravisibile e invisibile che deriva non da un pudore virtuoso, bensì da un’etica della visione ben precisa. In questi momenti, la macchina da presa disegna lo spazio senza perforarlo, gira intorno all’atto, non filma l’azione bensì l’idea dell’azione; posiziona la violenza e l’osceno nel tempo, non nello spazio cinematografico, non dà a vedere né ad ammirare, ma lavora sul tempo e sulla durata in modo da mostrare l’idea dell’evento e l’intensità dell’emozione vissuta.

Mizoguchi scivola davanti alla morte di Miyagi, come per volerla schivare; non offre lo spettacolo, ma la rappresentazione di una morte registrata e fissata con uno sguardo che preferirebbe non aver visto. Il regista guarda facendo finta di non vedere nulla e mostra il fatto nel prodursi come fatto, cioè ineluttabilmente e di traverso. Mizoguchi si tiene quasi in disparte, per timore e per tremore, senza mai avvicinarsi troppo alla scena; ha visibilmente paura della guerra e desidera fuggirne l’orrore e l’assurdità. Non dall’indifferenza quindi, ma da una nausea profonda deriva quella che Daney definiva una panoramica inebetita, movimento di uno sguardo claudicante che riprende a fatica ciò che non avrebbe mai voluto dover mostrare. La linea disegnata da Mizoguchi si muove lateralmente, scorrendo sull’azione come se la macchina da presa passasse per caso davanti ai personaggi. Il contenuto dell’immagine esige la coscienza della forma; l’orrore della guerra e la morte improvvisa della donna chiedono di tracciare la scena e non di penetrare lo spazio.

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mercoledì 7 aprile 2004

Manifesto ciclo "Fantasmi giapponesi"

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