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mercoledì 16 marzo 2005

Presentazione "Big fish"

«BIG FISH» di T. Burton (2004)

Tim Burton si è ritagliato da tempo, all’interno dell’establishment holly-woodiano, un piccolo regno fatto soprattutto di atmosfere oscure, inquietanti, popolate da mostri borderline che galleggiano nel limbo tra “società civile” e un mondo “altro”, totalmente ricoperto dalla sua sfrenata fantasia (anzi, proprio dallo sconfinamento dei suoi personaggi tra i due mondi nascono alcuni dei suoi film più riusciti, come i due Batman, “Il mistero di Sleepy Hollow”, “Nightmare before Christmas” e, perché no, anche “Ed Wood”, folletto del cinema di serie z, personaggio assolutamente al confine tra “normalità” e follia). “Big fish” è la summa di tutte le storie di personaggi straordinari che ha narrato finora, rimanendo intatta in fondo la molla alla base dei suoi film, un personaggio fuori da ogni canone che interseca la mediocrità della vita dei “normali” (vedi sopra), non ci mostra più semplicemente le avventure di un solo freak, ma quest’ ultimo che le ricorda TUTTE. Come se Batman, ormai invecchiato, raccontasse tutte le sue imprese a una platea di stupefatti spettatori, invece che agire. Inventare, manipolare, impastare, narrare come un vecchio cantastorie, farcire la monotonia di un reale altrimenti privo d’interesse sono gli elementi basilari che Burton mette in gioco in questo film e che fanno di quest’ opera la più teorica e programmatica delle sue. Big Fish è un manifesto poetico/estetico e di sicuro il suo capolavoro.

Un padre, fermo a letto da una grave malattia (ottima idea di sceneggiatura, l’ immobilità come negazione dell’ azione, ma condizione prima per l’ evocazione ), rincontra il figlio dopo tre anni di silenzio reciproco, causato dal rifiuto del secondo di essere solo una parentesi all’ interno dei mirabolanti racconti che il primo ha intessuto nel corso degli anni sulla propria vita. Il nuovo incontro tra i due fa scattare e poi chiudere definitivamente il confronto (e lo scontro) tra chi è sempre voluto rimanere con uno sguardo meravigliato nei confronti della realtà e chi si è invece inaridito e sentito truffato da una vita: il figlio non a caso incarna ciò che l’affabulazione nega, la mera cronaca del giornalismo. Il rapporto con la realtà, intrinseco a tutto il cinema, è la materia viva di questa educazione alla creatività che non è solo un elogio all’evasione pura, ma una grossa lezione morale di sguardo. Burton parla di sé, è ovvio, crea un ritmo perfetto tra i (presunti) flash-back della vita del vecchio padre (interpretato alla grande sia da Ewan MacGregor che Albert Finney) e i ritorni alla quotidianità del suo tumore, c’ è tutto il suo immaginario nelle vicende dell’impresario circense licantropo, nel gigante buono, nelle cantanti coreane siamesi, nel ricreare un (inquietante) quadretto di un tipico quartiere della middle-class americana degli anni cinquanta e così via. L’ imprendibile pesce enorme che non si fa catturare se non da un anello di matrimonio (perché è la reincarnazione di un ladro) è la metafora di chi guizza con leggiadria tra le trappole della falsità e dell’impostura, perché possiede il segreto d’immaginare un mondo dove è possibile vedere la propria fine nell’occhio di vetro di una vecchia strega. L’orrido è sempre presente, ma è più sottile che in altri suoi film, pulsa nascosto sotto le pieghe di una vicenda (tratta dal romanzo di Daniel Wallace) che nel film è raccontata dal figlio del protagonista, ma “con le parole di chi gliel’ ha raccontata”: l’onestà prima di tutto, anzi soprattutto nel caso in cui si parli di storie incredibili come queste. Come dire, per saper inventare davvero vicende meravigliose (e non raggiri in malafede) la realtà non bisogna fuggirla, ma conoscerla meglio degli altri.

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mercoledì 9 marzo 2005

Presentazione "Mystic river"

MYSTIC RIVER

(USA, 2003)
Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Brian Helgeland

Cast: Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon, Laura Linney

Raramente ci capita di vedere dei film capaci di trascendere gli aspetti privati e intimi dei vari protagonisti del racconto per giungere a un discorso più ampio, in grado di ergersi a paradigma di una società intera, o almeno di una parte di questa. Oggetto e soggetto del film il dolore, di due uomini in particolare; uno che ha perso la figlia diciannovenne, l’altro seviziato quand’era bambino. All’interno di un pregevole intreccio giallo, le vite e le psicologie di questi due uomini feriti e dei loro famigliari si svelano poco a poco, sino al tragico e inatteso finale. Vero momento chiave del film resta però l’epilogo, ambientato durante la parata del 4 luglio (la festa nazionale statunitense), dove l’equilibrio narrativo e l’ordine sociale vengono ristabiliti, le coscienze ripulite e le vittime dimenticate. Tutto acquista un senso nelle parole e nei gesti della moglie di Jimmy (Sean Penn nel film), gelida e cruda spiegazione dello stato di cose presenti. Ci torna alla mente, per analogia, il film di Nanni Moretti “La stanza del figlio”. In quel caso, il dolore di una famiglia e la sua elaborazione del lutto, restavano chiusi nel loro guscio; non potevano cioè che riguardare altri che parenti e amici. Al contrario, nel film di Clint Eastwood, tutti ci sentiamo toccati e tutti in fondo capiamo quel dolore; è la consapevolezza – più o meno conscia – di essere al capezzale di un modello di vita profondamente malato.

Questa, a nostro parere, la differenza fra “Mystic River” e “La stanza del figlio”; questa la differenza fra il grande e il piccolo cinema.

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Manifesto quarta stagione - prima rassegna

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mercoledì 2 marzo 2005

Presentazione "Notre musique"

NOTRE MUSIQUE

(Jean-Luc Godard, 2004)

Godard ha 75 anni. Il suo ultimo film, “Notre Musique”, è stato presentato a Cannes lo scorso anno (2004), l’anno della vittoria di Fahrenheit 9/11. In Italia sono 15 anni che un suo film non viene distribuito in sala (da “Nouvelle Vague”, del 1990, con Alain Delon e Domiziana Giordano); chi voleva vedere i suoi nuovi film doveva necessariamente recarsi ai festival dove venivano proiettati o recuperarli in cassetta (o dvd) sul mercato estero. A meno di sorprese, non sarà dunque possibile vedere in Italia “Notre Musique” al cinema.

“Notre Musique” è diviso in tre parti: 1° regno, l’inferno (la guerra); 2° regno, il purgatorio (la ricostruzione); 3° regno, il paradiso (uno spazio incontaminato e recintato, sorvegliato dai marines). La seconda parte, ¾ di film, è ambientata in Bosnia, durante lo svolgimento di una serie di incontri con personalità del mondo letterario. C’è un ebreo di Parigi che racconta la storia della sua famiglia; c’è un poeta palestinese che parla del suo popolo; c’è il ponte di Mostar in ricostruzione; c’è Godard che tiene una lezione di cinema. Questo, in sintesi, il contenuto del film.

C’è un abisso che separa Godard da, per esempio, Michael Moore; e questo abisso non è altro che la memoria; la Storia, potremmo dire. Oggi preferiamo consolarci con “Fahrenheit 9/11”, con “Schindler’s List”, o con “I cento passi”, piuttosto che ricostruire il nostro immaginario con i film di Godard, di Straub/Huillet e di pochi altri.

La musica di Schoenberg non è uguale alla musica dei Beatles; la scrittura di Baudelaire non è uguale a quella di Baricco; Orson Welles non è uguale a Sam Raimi. In fondo, i film di Godard, e di tutti coloro che resistono, ci ricordano che esistono ancora delle differenze, e che il fare delle scelte si paga. Nel caso di Godard egli è di volta in volta considerato snob, troppo intellettuale, noioso, pesante, blasfemo, provocatore ecc., e intanto i suoi film non escono al cinema e non interessano praticamente nessuno. Estendendo il discorso, chi resiste è considerato di volta in volta violento, filoterrorista, terrorista, criminale, assassino, delinquente, teppista ecc. Solo la memoria, la Storia, ci possono venire in soccorso, ci possono offrire un sostegno e guidarci nei percorsi, problematizzare le situazioni. Ecco perché non daremo mai un film di Benigni e invece ne daremo di Clint Eastwood, o perché non daremo mai un film di Greenaway e invece ne daremo di Ciprì e Maresco. Ecco perché daremo “Milano calibro 9” e non daremo mai “W la foca”.

La storia, la memoria, Godard, il cinema: noi stiamo da quella parte, per dire anche noi, coi nostri mezzi, che “La vita è bella” non è “Vogliamo vivere!”.

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