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Visualizzazione post con etichetta Clint Eastwood. Mostra tutti i post
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giovedì 20 novembre 2008

"CHANGELING" di Clint Eastwood, 2008

Bel film, e non è poco, perchè da Eastwood ci si aspetta sempre tantissimo. Bella la storia, bella la fotografia, bravi gli attori (John Malkovich e Jason Butler Harner su tutti), perfetta la regia. Non un capolavoro, però. Anche perchè non è possibile realizzare sempre e solo capolavori (per quanto discutibile possa essere il termine "capolavoro"). In Changeling non tutto funziona alla perfezione. E secondo noi quello che non sempre funziona nel film è la protagonista, Angelina Jolie.

Vediamo e intuiamo dal primo momento in cui viene inquadrata che per lei questo è il ruolo della vita; capiamo anche subito che l'impegno e il lavoro sul personaggio non mancano. Nei suoi gesti nessun ammiccamento erotico, nella vicenda nessuna digressione sentimentale, nel personaggio nessun desiderio oltre a quello di ritrovare il figlio perduto. Un ruolo costruito su misura per una grande attrice, come si faceva una volta per Ingrid Bergman, Bette Davis o Anna Magnani, e un personaggio da Oscar. Ecco, il limite di Changeling forse sta proprio in questo. Nulla di male, ovviamente, a volere vincere dei premi. Solo che in questo caso il tutto pare un pò troppo progettato a tavolino, un pò macchinoso. Sono talmente tante le inquadrature e i primi piani su Angelina Jolie che viene spontaneo pensare che in Eastwood ci sia innanzitutto la volontà di farci vedere quanto sia brava e intensa come attrice la moglie di Brad Pitt. Brava, appunto, ma non straordinaria, detto con tutto il rispetto che nutriamo per l'ex eroina di Tomb Raider. Di questo eccesso il film, a nostro parere, un pò ne risente. Perchè per il resto, siamo sugli standard qualitativi a cui Clint Eastwood ci ha ormai abituati da almeno 15 anni, ovvero dal magnifico Unforgiven, che (allora sì, sorprendentemente) nel 1992 si aggiudicò ben 4 Academy awards.

A parte questa "debolezza" Changeling è ovviamente un film da vedere, dal momento che lo sguardo sull'America del repubblicano Eastwood resta uno dei più lucidi, spietati e affascinanti in assoluto, indipendentemente dagli obiettivi che il film si pone e dai contenuti che emergono. Intanto stiamo già aspettando che sia distribuito in Italia il secondo lungometraggio del 2008 dell'instancabile Clint (già al lavoro, fra l'altro, su The Human Factor, con Morgan Freeman nel ruolo di Nelson Mandela), ovvero Gran Torino, che è il modello di una amatissima Ford degli anni 70 (quella usata per esempio da Starsky e Hutch) , ma che è la storia di un uomo bianco americano, veterano della guerra di Corea, razzista, interpretato - finalmente, dopo 3 film solo come regista - dallo stesso Eastwood.

trailer di Changeling



trailer di Gran Torino

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mercoledì 9 marzo 2005

Presentazione "Mystic river"

MYSTIC RIVER

(USA, 2003)
Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Brian Helgeland

Cast: Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon, Laura Linney

Raramente ci capita di vedere dei film capaci di trascendere gli aspetti privati e intimi dei vari protagonisti del racconto per giungere a un discorso più ampio, in grado di ergersi a paradigma di una società intera, o almeno di una parte di questa. Oggetto e soggetto del film il dolore, di due uomini in particolare; uno che ha perso la figlia diciannovenne, l’altro seviziato quand’era bambino. All’interno di un pregevole intreccio giallo, le vite e le psicologie di questi due uomini feriti e dei loro famigliari si svelano poco a poco, sino al tragico e inatteso finale. Vero momento chiave del film resta però l’epilogo, ambientato durante la parata del 4 luglio (la festa nazionale statunitense), dove l’equilibrio narrativo e l’ordine sociale vengono ristabiliti, le coscienze ripulite e le vittime dimenticate. Tutto acquista un senso nelle parole e nei gesti della moglie di Jimmy (Sean Penn nel film), gelida e cruda spiegazione dello stato di cose presenti. Ci torna alla mente, per analogia, il film di Nanni Moretti “La stanza del figlio”. In quel caso, il dolore di una famiglia e la sua elaborazione del lutto, restavano chiusi nel loro guscio; non potevano cioè che riguardare altri che parenti e amici. Al contrario, nel film di Clint Eastwood, tutti ci sentiamo toccati e tutti in fondo capiamo quel dolore; è la consapevolezza – più o meno conscia – di essere al capezzale di un modello di vita profondamente malato.

Questa, a nostro parere, la differenza fra “Mystic River” e “La stanza del figlio”; questa la differenza fra il grande e il piccolo cinema.

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mercoledì 29 ottobre 2003

Presentazione "Honkytonk Man"

Honkytonk Man

(USA 1982, col, 122’)

r.: Clint Eastwood

s., sc.: Clancy Carlile

f.: Bruce Surtees

mus.: Steve Dorff

scg.: Gary Moreno

m.: Ferris Webster, Michael Kelly, Joel Cox

int.: C. Eastwood, Kyle Eastwood, John McIntire

p.: Malpaso Company

Quasi un caso la benvenuta coincidenza di questa proiezione con l’uscita del nuovo grande film di Eastwood, Mystic River. Come per ogni suo lavoro, anche Honkytonk Man, a nostro avviso uno dei suoi lungometraggi più duri e poetici, ci racconta un’America che nell’ultimo ventennio pochissimi autori, e forse nessuno come Clint, ha avuto le capacità e il coraggio di affrontare. Il Dark Side della Nashville altmaniana, sfavillante di lustrini e intolleranza, il tempio del countrydenaro e dello stivale a punta, resta poco più di un miraggio per il cantautore Red Stovall (lo stesso Eastwood che realmente canta i brani del film). L’America dei vinti, della depressione, della malattia e dei sogni che non si realizzano, ci viene raccontata esplorando i luoghi del dolore e della miseria, attraverso la lunga agonia fisica ed esistenziale di Stovall che in extremis riuscirà ad incidere qualche brano prima di morire. Personaggio di certo contraddittorio, Clint Eastwood è oggi uno dei più grandi registi in attività che riesce a ritagliarsi spazi, unici e solitari, nella fogna cinematografica statunitense (la Malpaso Company è il marchio oggi indelebile delle produzioni eastwoodiane al di fuori dei meccanismi di dominio delle major hollywoodiane) dando spazio al consueto crudo lirismo a cui ci ha abituato sin dai tempi delle grandi prove attoriali pilotate dai suoi maestri (a cui tra l’altro dedicò Gli Spietati): Don Siegel e Sergio Leone.

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