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lunedì 28 novembre 2011

29° Torino Film Festival #1 - LE VENDEUR di Sébastiene Pilote, 2011

Domenica 27 novembre: LE VENDEUR di Sébastiene Pilote, Canada, 2011, colori, 107' - Concorso Lungometraggi

"Vendo auto, tutto qui". E' la frase che riassume un'intera esistenza, quella di Michel (magnificamente interpretato da Gilbert Sicotte), 67 anni, da oltre venti vincitore del premio come migliore venditore della concessionaria in cui lavora.
Il film è ambientato in inverno, in una cittadina del Québec. Michel vive solo, ma ha una figlia e un nipote, che rappresentano l'unico suo legame esterno al mondo lavorativo. Tutto pare filare liscio, come sempre. In realtà, la città sta vivendo una profonda crisi economica. La fabbrica PB è infatti chiusa da 250 giorni, e i 500 operai che vi lavorano vedono, ogni giorno che passa, concretizzarsi la perdita definitiva del posto di lavoro. Inevitabilmente, anche alla concessionaria si presentano sempre meno clienti. In questo clima di depressione, Michel è l'unico che riesce però ancora a vendere. Un'auto nuova a un operaio disoccupato. E quando Michel passa il tempo con la figlia e il nipote, il suo pensiero resta comunque rivolto al lavoro. Chiunque può diventare un cliente. Vendere auto è per Michel non solo il rimedio alla sua evidente solitudine; vendere auto è l'essenza del suo essere e della sua vita. A Michel può essere portato via tutto, fuorchè il suo lavoro. E questa è la vera tragedia del film.
La regia, molto curata, forse solo un pò prevedibile, è perfettamente funzionale al racconto. I momenti più riusciti sono rappresentati dalle sequenze in cui la routine quotidiana subisce delle variazioni e le ellissi narrative vengono spezzate. Sono i momenti in cui la storia si dispiega verso possibili altri percorsi, per quanto minimali, per poi tornare al consueto. Bellissima e toccante per esempio la scena della festa organizzata dal parroco, in cui l'orchestrina locale esegue Romance in Durango, che il regista decide di farci ascoltare e vedere nella sua intera durata: il Canada, la neve, gli operai disoccupati, i balli, Michel e la figlia, le risate, il cibo offerto, la chiesa, la comunità, e una canzone di Bob Dylan che parla di sole, passioni infuocate, amore e morte. Questo sapiente contrasto restituisce, come solo il cinema riesce a fare, la ricchezza di significati che la superficie delle immagini pare nascondere.
Timidi e tiepidi applausi alla fine della proiezione. Peccato, perchè per quanto auspicabile non pensiamo sarà facile riuscire a vedere in concorso film altrettanto validi di Le vendeur.

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mercoledì 24 agosto 2011

UN GELIDO INVERNO di Debra Granik, 2010


Un film veramente bello. Notevoli tutte le attrici e tutti gli attori, sicuramente anche per merito della regista Debra Granik. In particolare spiccano la protagonista Ree, interpretata da Jennifer Lawrence, e John Hawkes, nel ruolo di Teardrop, lo zio di Ree, una via di mezzo tra il Dennis Hopper di Rumble Fish e l'Harry Dean Stanton di Paris, Texas. Ambientato in una poverissima provincia del Missouri, il fim - costruito sulla ricerca del padre da parte di Jennifer - impressiona per la capacità di evocare, senza mai mostrarla veramente, una violenza primordiale, brutale ed estrema, che pare essere l'unica ancora di sopravvivenza dei "miserabili" personaggi che via via Ree incontra sulla sua strada. Un'inquietudine che ricorda quella provocata, sebbene poi declinata su altri registri, dalla visione del primo Texas Chainsaw Massacre. Bella anche la colonna sonora, in particolare la scena del compleanno, in cui un'improvvisata band suona un paio di intensi brani country. Dispiace solo averlo visto doppiato. In lingua originale certamente il film rende ancora di più.



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mercoledì 18 maggio 2011

Su Lars Von Trier



Ci sono molti modi per vedere un film. Con gli occhi, con la testa, con il cuore. Alcuni, sono come un colpo di fulmine, altri ti prendono allo stomaco. Altri ancora, a naso, lasciano dei dubbi. Dei film di Lars Von Trier, per esempio, non ci siamo mai veramente fidati. Personalmente, vidi Europa alla sua uscita, e ci capii molto poco. Le onde del destino, lo difesi con gli amici che lo trovavano ridicolo, nonostante la fatica della visione e le perplessità sui "contenuti". Avevo voluto "concedere" un'opportunità al regista, pensando che al fondo di tanta esibizione del dolore vi fosse dell'umana pietà. Insomma, che non si potesse essere davvero così meschini da divertirsi con i sentimenti altrui e passarla liscia. Dancer in the dark, qualche anno dopo, mi dimostrerà che mi ero sbagliato. Non c'era molto da difendere. Da allora non sono più riuscito a vedere un film di Lars Von Trier.
Il suo è sì un cinema della crudeltà, ma verso lo spettatore. Questi è la vittima di un gioco sui sentimenti, sulle emozioni e anche sul pensiero, fine a se stesso. Nei film di Von Trier non vi è alcuna tragedia, alcuna catarsi. Solo eccessi, che traggono in inganno. Ma sarebbe anche sbagliato considerare Von Trier un sadico. Ciò che abilmente viene fatto apparire profondo e intenso, altro non è che gretto cinismo. Il sadismo, quello vero, quello del marchese de Sade, in realtà - giustamente - lo terrorizza. A lui è sufficiente giocare col ruolo che il suo talento innegabile gli ha permesso di costruire, quello del "provocatore organico" al mainstream, per sentirsi realizzato. I premi che puntualmente riceve ne sono la dimostrazione, il suo vero successo.

Finchè un giorno, al festival di Cannes 2011, il regista danese si lascia scappare alcune frasi:
"
Per lungo tempo ho pensato di essere ebreo ed ero felice di esserlo. Poi ho conosciuto Susanne Bier (regista danese ebrea) e non ero così contento. Ma dopo ho scoperto che in realtà ero un nazista. La mia famiglia era tedesca. E questo mi fa anche piacere. Cosa posso dire? Hitler lo capisco. Ovviamente ha fatto molte cose sbagliate, assolutamente, ma riesco a immaginarmelo mentre sedeva nel suo bunker quando tutto era finito. Sto solo dicendo che capisco l'uomo. Certo, non è proprio quello che definiresti un bravo ragazzo ma, sì, ho capito molto di lui e mi fa un po' di simpatia. Su ragazzi ,non sono mica per la seconda guerra mondiale. E non sono contro gli ebrei. Mi sento vicino agli ebrei. Ma non troppo, perché Israele è un dito nel culo"

Poco dopo, viste le reazioni non proprio favorevoli alla sua performance, il regista tutto d'un pezzo redige ben due comunicati stampa, dal momento che uno non era stato sufficiente a smorzare le polemiche. Nel secondo afferma, lapidario: "
Tengo sinceramente a scusarmi. Non sono antisemita, né razzista, né nazista".
Che smacco, per uno come lui, dovere rinnegare così platealmente le sue false provocazioni. Nel momento in cui si è trattato di scegliere se smontare il suo personaggio o rischiare probabili ritorsioni nell'ambiente cinematografico, il regista danese non ha avuto dubbi. Meglio perdere la faccia che perdere dei soldi.

Nel 1995, se non erro l'anno, Von Trier si presentò a Cannes con altri registi facenti parte del collettivo "Dogma". Sul tappeto rosso fecero la loro passerella accompagnati dalle note dell'Internazionale, marciando a pugno chiuso. Per caso von Trier era comunista e ora è diventato nazista? No, niente di tutto questo. Von Trier, dovrebbe essere chiaro ormai, non è uno che fa sul serio. Che siano passerelle, conferenze stampa o pellicole.
E allora, piuttosto che un suo film, meglio riguardarsi un Pozzetto o un Lino Banfi. Almeno ogni tanto si ride, e non ci si sente presi in giro.


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domenica 24 aprile 2011

WORLD INVASION di Jonathan Liebesman, USA 2011


Un film bestiale, al di sotto della decenza. Talmente rozzo da escludere qualsiasi tipo di interpretazione che non rimandi al film stesso; in altre parole, in questo che è un film di guerra, non si può nemmeno parlare di metafora di un qualunque conflitto realmente in atto, nè tantomeno di paure da esorcizzare o di propaganda pro USA. Qui ci sono soltanto dei soldati che urlano e sparano a un nemico, extraterrestre, che di fatto viene rappresentato come il Male assoluto. E se il nemico è il Male, come si fa a non stare dalla parte dei marines? Tutto viene ridotto alla rappresentazione di due estremi: bene/male, vita/morte, buono/cattivo, giusto/sbagliato ecc. In mezzo, il nulla.

La scena chiave, dal nostro punto di vista, è quella della cattura dell'alieno agonizzante. Per un paio di minuti, forse più, i soldati provano a finirlo, sparandogli raffiche una dietro l'altra, ma questo continua a resistere e non vuole saperne di morire. Ecco allora che il sergente-eroe del film, in questo caso aiutato dalla donna che ha appena salvato (una veterinaria (!)...), prende l'iniziativa e comincia a squartare l'alieno, alternando allo scanno svariate pugnalate mirate a scoprire quale sia l'organo vitale da colpire per uccidere il mostro.
La regia indugia non poco nel mostrare questa sorta di autopsia in vita, con l'intento di aggiungere ulteriore repulsione nei confronti del nemico, che risulta composto di vari strati di carne putrida e grigiastra. Una "sapiente" ellissi ci fa poi capire che l'operazione è lunga e impegnativa. Ma quando la cinepresa ritorna sul sergente-eroe, finalmente l'alieno muore. Lui e la veterinaria hanno scoperto che per ucciderlo, bisogna colpire il cuore... Pensiamo che sia sufficiente e ci fermiamo qui.

Questa assoluta riduzione del nemico a puro e semplice oggetto da annientare, aggiunta alla sequela di frasi pronunciate dai marines in combattimento ("vanno giù come birilli", "passaci sopra con le ruote", "hai sentito dolore?" ecc.), e ai vari
"yuhuuu", "yippeee", "uohuuu" esclamati ad ogni alieno ammazzato, ci dà comunque conto di un modo di pensare, di un modo di vedere le cose, di ragionare, che non è solo della finzione. Al nemico, che ormai è sempre più nemico assoluto, non viene più concesso nulla. Non c'è spazio per alcun tipo di umanità, perchè già nella sceneggiatura l'umanità è data in esclusiva a una sola delle parti in conflitto. Non vi possono essere sfumature o contraddizioni, perchè altrimenti la storia si complica. Così tutto è giustificabile, e il distacco con cui è girata la scena dello scannamento di cui sopra, provoca involontariamente un'inquietudine che è data dall'indifferenza con cui vengono commesse le atrocità.
Se oltre a tutto questo aggiungiamo ancora la banalità di ogni scelta di messinscena e di inquadratura (tutti clichè e tutte cose già viste in decine di altri film), la mediocrità di sceneggiatura e dialoghi (si rimpiange la "creatività" di Berretti verdi), l'utilizzo, incredibilmente spudorato e davvero imbarazzante, della peggiore retorica sull'eroismo dei marines, non si può che concludere che World Invasion sia uno dei peggiori film che negli ultimi anni ci sia capitato di vedere.

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venerdì 8 aprile 2011

THE WARD di John Carpenter, 2010




Sono lontani i tempi di Fantasmi da Marte, quando al festival di Venezia il pubblico in sala accolse con ovazioni e tifo da stadio la pellicola di Carpenter. Oggi, The Ward esce nelle sale italiane praticamente senza una vera promozione, in sordina, e dopo un'anteprima al festival del cinema di Torino che ha sostanzialmente deluso le aspettative. E' cambiato Carpenter o è cambiato il pubblico?
Definito da Serge Daney un regista grezzo, e cinematograficamente poco interessante, vedere oggi sul grande schermo un film come The Ward mette un pò di nostalgia. Perchè a noi sembra che ciò che in verità Carpenter voglia farci vedere, è che è possibile realizzare un horror americano senza per forza adattare lo stile alla frammentazione e ai ritmi frenetici del videoclip mainstream, e perchè a noi sembra che tutto sommato Carpenter sia riuscito nel suo intento, oltretutto senza rinunciare ai clichè del genere.
Magari ruvido, spesso privo di sfumature, Carpenter resta comunque, ancora oggi, un outsider della New Hollywood, ostinato nell'affermare che un altro cinema è (stato) possibile, e consapevole del proprio ruolo. Come spiega lo stesso Carpenter, "The Ward è un film old school da un regista old school".




I titoli di testa del film




Il trailer originale

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sabato 5 febbraio 2011

ANOTHER YEAR di Mike Leigh, 2010


Il cinema di Mike Leigh è soprattutto un cinema di attori. La messinscena e gli ambienti sono lo sfondo - anch'esso significante, ma pur sempre sfondo - sul quale il regista proietta ciò che più gli interessa, ovvero i personaggi. Fondamentale in tutti i suoi film sono dunque i dialoghi e la recitazione. In Another Year essi appaiono più controllati e misurati che in altri suoi film, (Naked, Segreti e bugie) e forse anche per questo il ritratto della famiglia middle class realizzato in questo ottimo film risulta più crudele di quanto ci si potesse attendere. Ma non bisogna farsi trarre in inganno dalle frasi pubblicitarie per il lancio del film, oltre che dalle recensioni dei quotidiani. Perchè di leggerezza e buoni sentimenti in Another Year non ve n'è nemmeno l'ombra.

Tom e Gerri sono una coppia di sessantenni che vive felice una vita agiata e armoniosa. Lei è psicologa, lui geologo. Hanno un figlio, Joe, che fa l'avvocato, e che pare essere l'unico cruccio della coppia, l'unica tessera fuori posto di un mosaico altrimenti perfetto. Per un pò di tempo ci si chiede quale possa essere il problema del figlio, quale l'ipotetica scomoda o dolorosa verità. Joe viene infatti spesso evocato dai vari personaggi, ma non si vede mai, e la sua assenza aumenta la curiosità. Succede però a metà film
che anche questa nota apparentemente stonata finalmente si accordi con tutto il resto. Tutto procede per il meglio, e la partitura ora è davvero completa, il disegno perfetto.
Cosa può dunque succedere, a questo punto, dentro a questa storia? In questo tipo di film in genere accade che un evento traumatico (un incidente, una malattia) giunga all'improvviso a spezzare l'equilibrio raggiunto, provocando una serie di altri eventi coi quali i protagonisti saranno costretti a confrontarsi e a rivelarsi nelle loro forze e debolezze, miserie e virtù. Non è questo il caso. Più verosimilmente, in questa storia i traumi arrivano, ma colpiscono gli altri , tutti coloro che per quanto vicini alla famiglia, non ne fanno parte. Se ancora lo spettatore avesse dei dubbi sui valori morali che esprimono i due coniugi, da questo momento la coppia-modello scopre le carte, e comincia a mostrarsi per quello che realmente rappresenta. Intanto, i pochi amici che frequentavano la bella casa di Tom e Gerri non si vedono più,
definitivamente sostituiti dal figlio e dalla sua fidanzata; la collega di Gerri (in realtà una modesta segretaria), Mary, sola e alcolizzata, un tempo presenza fissa nella vita dei coniugi, è quella che subisce il colpo più duro. In maniera improvvisa e definitiva Mary viene esclusa dal felice quadretto, in quanto colpevole di avere accolto con ostilità l'ingresso in famiglia di Katie, la fidanzata di Joe, dal quale Mary è evidentemente e morbosamente attratta. Sono i momenti in cui appare evidente che Tom e Gerri (tra parentesi, sublime l'ironia nella scelta di questi due nomi) non abbiano altro da offrire agli altri che la riproduzione di loro stessi in identica forma, compresa la loro presunta felicità, superficiale come i rapporti che essi instaurano con il prossimo.

Fondamentalmente, Tom e Gerri sono incapaci di dare alcunchè. La profondità dei sentimenti e delle passioni, soprattutto il dolore e la sofferenza gli devono apparire come una minaccia, e anche i momenti in cui la coppia può sembrare generosa, alla luce dello sviluppo della narrazione si riveleranno come comportamenti puramente formali, o utili al mantenimento di rapporti basati sulla convenienza. A inizio film, Gerri chiede a Mary di sbrigarle alcune pratiche. Mary accetta di buon grado, con trasparente amicizia, nonostante la sua scrivania sia stracolma di carte. Già qui un occhio attento può cogliere la distanza fra le due donne, attraverso lo sguardo distaccato che la psicologa rivolge alla "povera" segretaria. Quando alla fine del film Mary, ormai disperata, implora la presunta amica, Gerri le nega l'affetto di cui avrebbe bisogno e le consiglia di andare in cura da un suo collega, ancora uno psicologo. Ma è solo un esempio. Sono tanti infatti i piccoli segnali inequivocabili che Mike Leigh dissemina lungo il film e che sottolineano l'aridità del cuore nei confronti di ciò che è esterno o non funzionale alla sopravvivenza del microcosmo famigliare.
Per fare ancora un esempio, quando la domenica (ogni domenica dell'anno), i coniugi vanno a curare il loro orto in campagna, le ombre sfocate di altre persone degli orti vicini ogni tanto compaiono nell'inquadratura. Eppure mai un saluto, un cenno, una parola viene rivolta a costoro, e viceversa. Ognuno per sè, ognuno chiuso nel suo mondo, ognuno letteralmente ripiegato nella cura del suo orticello, vera metafora del film.

Si arriva dunque al finale, il momento più politicamente esplicito. La sensazione che in
Another Year vi fosse anche un discorso che avesse a che fare con la suddivisione in classi sociali della società, aleggiava per tutto il film, ma pareva essere più che altro uno fra i sottotesti, e comunque velato. Nella cena conclusiva, invece, tutto appare chiaro: Tom e Gerri, Joe e Katie cenano un'ultima volta con Mary e con Ronnie, il fratello di Tom, appena rimasto vedovo e ai limiti dell'indigenza. L'argomento della discussione a tavola, dato il contesto, è straniante: si parla di viaggi in giro per il mondo, di Australia, di vacanze a Parigi, e infine di soldi. L'ostentazione del denaro e delle possibilità che esso offre mostrano definitivamente la crudeltà di un modello e di uno stile di vita che per reggersi non può che ignorare l'altro, e in fondo, provare disprezzo per chi soffre o è in difficoltà. Solitudine, insuccesso, sofferenza, miseria sono una colpa.
Il quadro non può essere macchiato, l'armonia non deve essere spezzata, e tutto ciò deve essere affermato nel modo più spietato possibile: cadono i filtri, l'ipocrisia si palesa, l'esclusione diviene assoluta.



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lunedì 15 marzo 2010

"Hommage à Eric Rohmer" di Jean-Luc Godard, 2010


Nel corso di una serata in ricordo di Eric Rohmer tenutasi alla cinématheque francaise lo scorso febbraio, è stato proiettato un breve video di Godard realizzato in omaggio all'amico appena scomparso. Su fondo nero, accompagnati da una musica da camera già utilizzata nelle histoire(s) du cinéma compaiono i titoli di alcuni fra i più celebri articoli di Rohmer pubblicati sui Cahiers du cinéma. La voce off di Godard, tremante e quasi incomprensibile, legge quello che pare un dialogo fra due giovani amici nel quartiere latino o a Saint-Germain. Verso la fine del video, una foto di Rohmer, e infine Godard stesso, ripreso dalla sua webcam. Il tutto dura 3 minuti e mezzo. Semplice, essenziale, ma immediatamente riconoscibile, Hommage à Eric Rohmer colpisce sul piano emotivo più che per quello che mostra, per quanto riesce a evocare. A evocare, beninteso, se chi guarda ricorda. Come sempre in Godard, il lavoro più impegnativo tocca allo spettatore, verso il quale, evidentemente, egli continua a nutrire il più profondo rispetto.


Guardalo
qui (c'è una trascrizione del testo letto da Godard)

oppure qui sotto

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domenica 14 febbraio 2010

"ITSASOAREN ALABA", di Josu Martinez, 2009











Si è tenuta venerdì scorso, al cinema Baretti di Torino, la proiezione del documentario di Josu Martinez Itsasoaren alaba (La figlia del mare). La serata rientrava all'interno delle iniziative organizzate dalla rete Amici e amiche di Euskal Herria, in occasione della settimana internazionale di solidarietà con il popolo basco. Il documentario ha come protagonista Haize Goikoetxea, figlia di Mikel Goikoetxea - Txapela - un militante dell'Eta ucciso nel 1984 dai Gal, gli squadroni della morte creati dall'allora primo ministro socialista del governo spagnolo Felipe Gonzales, quando Haize aveva solo 2 anni. Di suo padre Haize sa pochissimo. Finchè, all'età di 25 anni, decide di partire alla ricerca delle persone che lo avevano conosciuto e che di lui potevano raccontargli qualcosa.
Una ricerca lunga e complessa, che alla fine darà i suoi frutti, e
che la videocamera di Josu Martinez documenta passo dopo passo, in un lento crescendo emotivo che tuttavia non cede mai al sentimentalismo di maniera e alla mitizzazione del combattente rivoluzionario. Un film prezioso quello di Josu Martinez (che nella vita lavora come radiogiornalista), in quanto ci mostra una realtà che oltre a essere misconosciuta, risulta pressochè invisibile. Sono infatti pochissimi e rarissimi i film baschi che trattino temi che abbiano a che fare con l'Eta e con la lotta politica della sinistra indipendentista basca in generale. Fra questi, La figlia del mare è senza dubbio il più bello che abbiamo visto.


Josu Martinez e Haize Goikoetxea

http://www.ehlitalia.com/


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giovedì 15 ottobre 2009

"FLASH FORWARD", serie tv, USA 2009, di David S. Goyer


Anche noi abbiamo visto i primi due episodi della nuova serie tv Flash forward.
Intrigante, non c'è che dire. Pensiamo però che si tratti di un sostanziale passo indietro rispetto ad altre recenti produzioni televisive americane (Lost e Mad Men su tutte); non tanto relativamente alla storia narrata, quanto piuttosto alla sua realizzazione filmica. Ciò che non funziona (o funziona meno bene che altrove) è ciò che sollitamente chiamiamo regia, le scelte ad essa connesse, il lavoro sull'immaginario del telespettatore.
Vediamo come inizia il primo episodio. Un uomo è a terra, forse ferito. Comincia a muoversi, si trascina carponi. Scopriamo che si trovava sotto un'auto capovolta. L'uomo si alza, si guarda intorno e si accorge (noi con lui) che è appena avvenuto un disastro. Morti, feriti e persone sotto shock che vagano per la strada.
Si tratta, concettualmente, dell'incipit di Lost. Citazione, omaggio o cos'altro? La spiegazione ci viene fornita subito dopo, quando vediamo e sentiamo la sigla della serie: un effetto sonoro e una scritta, Flash Forward. Anche qui, il rimando a Lost è evidente. E a questo punto, ridondante.
Perchè l'effetto diventa didascalico. Questi primi minuti, infatti, sembrano volersi accattivare, con una sorta di promessa di qualità, un pubblico preciso, numeroso ma esigente: i fans di Lost. Come se, evidentemente, dal confronto si uscisse sconfitti in partenza.
Vediamo un altro frammento. Immediatamente prima della sigla c'è un'inquadratura che secondo noi svela la reale ambizione dei realizzatori della serie, o meglio, il punto di incontro di più esigenze. E' l'immagine di un uomo avvolto dalle fiamme, che corre fra le auto incidentate, urlando.
Dire che si tratta di un clichè è riduttivo. L'immagine infatti, oltre che essere abusata, appare "appiccicata" alle altre, quasi fuori contesto. Questo effetto "inserto" non è funzionale ad altro che alla spettacolarizzazione ulteriore del disastro che stiamo assistendo. Qualcuno, come noi, storcerà il naso di fronte a questo surplus di senso. Molti altri, invece, riconosceranno proprio in quell'inserto il culmine della tensione narrativa. Ci pare esplicita dunque, la ricerca, di un pubblico ancora più vasto di quello che ha decretato il successo di Lost. Un pubblico meno esigente, e più giovane.
Questo tentativo di creare una serie tv di grande successo di pubblico e allo stesso tempo di grande successo di critica, si rivela maldestro anche soffermandosi, ad esempio, sulle musiche di repertorio utilizzate in questi primi due episodi. Nel primo ci viene fatto ascoltare - Eminem sarebbe stato troppo banale, avranno pensato - l'ultimo singolo di Mos Def, Quiet dog bite hard, associato al personaggio della studentessa baby-sitter; nel secondo episodio, in una sequenza che ci mostra alcuni personaggi alle prese con dubbi e sofferenze, viene invece utilizzato un brano di Nick Drake, Place to be: scena malinconica, canzone del più malinconico - ma di culto! - dei cantautori. E così anche Nick Drake riesce a diventare musica-tappezzeria, sfondo a una recita di basso profilo, che tutto equipara.

Ecco, tutto questo materiale eterogeneo, tutti questi ammiccamenti, l'assenza (almeno per ora) di percorsi alternativi alla semplice trama narrativa, i riferimenti fini a se stessi, a cui aggiungiamo il ritmo frenetico ma monocorde del montaggio, la medietà degli attori e della loro direzione, la fotografia di ultima tendenza, fanno di Flash Forward una serie che - ahinoi - riporta il telefilm indietro di 10 anni, alla sua dimensione standard.
Lo schermo si rimpicciolisce, i sogni altrettanto. E al telespettatore, in cambio della complicità su di un sapere che si vorrebbe raffinato, viene lanciato un salvagente che è costretto a indossare, ma di cui francamente non sentiva più il bisogno.

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giovedì 17 settembre 2009

"IL LUPO" di Stefano Calvagna, 2007

Ce lo eravamo perso. Poi un amico ci ha chiesto se avevamo visto il film sulla storia di Luciano Liboni, e abbiamo così saputo dell'esistenza della pellicola del 2007 di Stefano Calvagna intitolata "Il lupo". Lo abbiamo visto, e abbiamo pensato di scriverci su un paio di righe. Prima però abbiamo cercato su internet qualche recensione, tanto per capire come "Il lupo" era stato accolto dalla critica ufficiale. Nel pochissimo che abbiamo trovato, giudizi positivi da Il Tempo e Il Messaggero, peggio che stroncature sul sito www.mymovies.it e sul dizionario Morandini., che scrive: "[...] è un film a tesi che intende assolvere il criminale, vittima della società e delle forze dell'ordine. Basso costo, infimo livello dilettantistico. Non meriterebbe nemmeno una stroncatura".
Secondo noi, il film è piuttosto bruttino. Ma non più brutto di un qualunque film italiano mainstream. E nella sua talvolta improvvisata messinscena, funzionano bene alcuni dialoghi e diverse scene che vedono protagonista il bandito Franco Scattoni (ovvero Luciano Liboni, ben interpretato da Massimo Bonetti). Aggiungiamo, per tornare a quanto scritto dai Morandini, che ci pare evidente che l'obiettivo del film non fosse quello di assolvere il criminale. Piuttosto, pensiamo che la vera sfida di Calvagna fosse quella di riuscire a fare, in Italia, un film dove carabinieri e poliziotti non venissero mostrati come onesti, eroici, valorosi e nobili cavalieri senza macchia e senza paura. Se è scontato affermare che "Il lupo" non per questo diventa un buon film, è altrettanto innegabile che - almeno dal nostro punto di vista - una tale sfida uno straccio di curiosità la susciti. E se siamo capaci di guardarci senza problemi i film di Marco Ponti, Paolo Virzì, Mimmo Calopresti, Roberto Faenza, ecc. ecc. ecc. non vediamo perchè rinunciare a priori alla visione de "Il lupo". Che a questo punto, ci pare prevedibile, consigliamo a tutti di vedere.

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domenica 12 luglio 2009

"UOMINI CHE ODIANO LE DONNE" di N. A. Oplev, 2009

Un film superficiale e deludente, costruito sui momenti forti e sui colpi di scena dell'omonimo romanzo da cui è tratto. La ricchezza del primo volume della trilogia di Stieg Larsson viene qui ridotta a una semplice, nonchè banale illustrazione della pagina scritta. Se si amano le atmosfere scandinave, meglio ripiegare sulla mini-serie tv prodotta dalla BBC sull'ispettore Wallander, con un ottimo Kenneth Branagh come protagonista.

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sabato 24 gennaio 2009

"LASCIAMI ENTRARE" di Tomas Alfredson, 2008

Secondo la stragrande maggioranza dei critici cinematografici italiani (e non solo), Lasciami entrare è un bellissimo film. Per il quotidiano "Liberazione" Lasciami entrare è addirittura "il miglior film dell'anno". Per noi del Kinoglaz Cineforum, invece (e ci spiace dirlo), Lasciami entrare risulta essere, alla fine, null'altro che il tipico film "medio", quello che scivola senza lasciare tracce, noioso ma non troppo, "d'autore" ma digeribile, "contro" ma conciliante (con lo spettatore). Il classico prodotto indicato per i frequentatori delle platee dei festival.

Lasciami entrare è un film sui vampiri ma non è un horror, è una storia d'amore ma non è un melodramma, è commerciale ma di nicchia.

Saremo forse insensibili rispetto a certe corde, ma non abbiamo assolutamente trovato il film commovente (come invece hanno scritto in tantissimi), tanto meno emozionante. Anzi, per certi versi lo abbiamo trovato persino fastidioso. Questo perchè diffidiamo delle love stories che tendono all'assoluto, diffidiamo dell'amore trascendente, del sentimento puro (ovvero, senza sesso), che non conosce limiti e che noi, esseri imperfetti, non pratichiamo.
Eppure Lasciami entrare parte bene: il buio, la neve, una voce off, due passeggeri su un taxi, un palazzo popolare, un bambino alla finestra: è l'arrivo del vampiro.
Il giorno dopo, la scuola, il bambino di spalle, un poliziotto stupido fa una domanda, il bambino risponde. Poi, su una panchina, due bambini lottano. Vediamo solo le loro gambe: entra in scena il cattivo.


Da qui in avanti, il film procede sulla falsariga dell'incipit, con distacco e freddezza, ma senza scosse (a meno che qualcuno si emozioni per dialoghi tipo: "Ho 12 anni, ma da un sacco di tempo"). Aspettiamo invano il cambio di marcia, lo scarto, il momento in cui - come scriveva Serge Daney - sia permesso a noi spettatori di "entrare" nel film.
Noi, spettatori, dobbiamo restare fuori. Dentro, resteremmo delusi. Delusi perchè un regista svedese che cita Persona alla quarta inquadratura, se "gioca" con lo spettatore, o ha in mano almeno un poker, oppure sta bluffando. Inutile dire che propendiamo per la seconda ipotesi.



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martedì 6 gennaio 2009

"QUEL MALEDETTO TRENO BLINDATO" di Enzo G. Castellari, 1978

Giochiamo d'anticipo e spendiamo due parole sul film di cui questa estate uscirà una specie di remake-omaggio ad opera di Quentin Tarantino. Quel maledetto treno blindato (Inglorious bastards negli Usa) è un film di guerra, più o meno ispirato a Quella sporca dozzina di Robert Aldrich e diretto da Enzo G. Castellari, autore di uno dei maggiori successi italiani degli anni settanta, Il cittadino si ribella, girato sulla scia del successo de Il giustiziere della notte. Come regista a Castellari viene riconosciuta una notevole abilità nelle scene di azione, la capacità di utilizzare il montaggio senza costringersi dentro a regole e schemi precostituiti, un uso personale del rallenti. Tuttavia, anche prendendo per validi questi riconoscimenti, Quel maledetto treno blindato resta un pessimo film, pasticciato, involontariamente parodico e spesso imbarazzante, praticamente sotto ogni punto di vista: sceneggiatura, dialoghi, recitazione, scenografia, inquadrature ecc.
Lo scriviamo ora perchè siamo certi che, come al solito, fra non molto in tanti ci spiegheranno che tutti i difetti del film sono in realtà dei pregi, che i pasticci e il caos narrativo in verità restituiscono la libertà creativa e l'atmosfera che si respirava sul set, di cui usciranno aneddoti, ricordi di battute divertenti, di scene girate e poi tagliate e via discorrendo.
Diciamola tutta, ci stiamo un pò stufando di queste continue rivalutazioni dei prodotti cinematografici nostrani, anche i più infimi. Non si riesce più a capire cosa è bello e cosa non lo è, o lo è meno. Ecco che allora, in mezzo alla sempre più fitta e inestricabile selva di cult movies da riscoprire, ci preme fare sapere che per noi Quel maledetto treno blindato è uno di quei film che può anche essere dimenticato.

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sabato 27 dicembre 2008

"CONTROL" di Anton Corbijn, 2007

Vita e morte di Ian Curtis, cantante e leader dei Joy Division. In poche parole, nulla più che il classico bio-pic ad uso e consumo dei fans. In particolare, il regista sceglie di concentrarsi sugli aspetti privati e sentimentali del protagonista, piuttosto che sull'innovativo discorso musicale della band, cosicchè quasi tutto si risolve su un piano prettamente esistenziale. Le esibizioni live, accuratamente ricostruite, non oltrepassano il livello della semplice imitazione, il più possibile fedele, ma pur sempre imitazione, prive cioè dell'intensità emotiva delle originali. Le movenze da marionetta di Ian Curtis diventano così un semplice "stile" per tenere il palco, malato e sofferto quanto si vuole ma mai shockante e rabbioso svelamento di una condizione di estrema fragilità fisica e psichica. Infine, la fotografia in bianco e nero appare qui la scelta più scontata, dal momento che non toglie nè aggiunge nulla a una storia che già di per se è fredda, triste e cupa.


Control - Transmission



She's lost control - Joy Division

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giovedì 20 novembre 2008

"CHANGELING" di Clint Eastwood, 2008

Bel film, e non è poco, perchè da Eastwood ci si aspetta sempre tantissimo. Bella la storia, bella la fotografia, bravi gli attori (John Malkovich e Jason Butler Harner su tutti), perfetta la regia. Non un capolavoro, però. Anche perchè non è possibile realizzare sempre e solo capolavori (per quanto discutibile possa essere il termine "capolavoro"). In Changeling non tutto funziona alla perfezione. E secondo noi quello che non sempre funziona nel film è la protagonista, Angelina Jolie.

Vediamo e intuiamo dal primo momento in cui viene inquadrata che per lei questo è il ruolo della vita; capiamo anche subito che l'impegno e il lavoro sul personaggio non mancano. Nei suoi gesti nessun ammiccamento erotico, nella vicenda nessuna digressione sentimentale, nel personaggio nessun desiderio oltre a quello di ritrovare il figlio perduto. Un ruolo costruito su misura per una grande attrice, come si faceva una volta per Ingrid Bergman, Bette Davis o Anna Magnani, e un personaggio da Oscar. Ecco, il limite di Changeling forse sta proprio in questo. Nulla di male, ovviamente, a volere vincere dei premi. Solo che in questo caso il tutto pare un pò troppo progettato a tavolino, un pò macchinoso. Sono talmente tante le inquadrature e i primi piani su Angelina Jolie che viene spontaneo pensare che in Eastwood ci sia innanzitutto la volontà di farci vedere quanto sia brava e intensa come attrice la moglie di Brad Pitt. Brava, appunto, ma non straordinaria, detto con tutto il rispetto che nutriamo per l'ex eroina di Tomb Raider. Di questo eccesso il film, a nostro parere, un pò ne risente. Perchè per il resto, siamo sugli standard qualitativi a cui Clint Eastwood ci ha ormai abituati da almeno 15 anni, ovvero dal magnifico Unforgiven, che (allora sì, sorprendentemente) nel 1992 si aggiudicò ben 4 Academy awards.

A parte questa "debolezza" Changeling è ovviamente un film da vedere, dal momento che lo sguardo sull'America del repubblicano Eastwood resta uno dei più lucidi, spietati e affascinanti in assoluto, indipendentemente dagli obiettivi che il film si pone e dai contenuti che emergono. Intanto stiamo già aspettando che sia distribuito in Italia il secondo lungometraggio del 2008 dell'instancabile Clint (già al lavoro, fra l'altro, su The Human Factor, con Morgan Freeman nel ruolo di Nelson Mandela), ovvero Gran Torino, che è il modello di una amatissima Ford degli anni 70 (quella usata per esempio da Starsky e Hutch) , ma che è la storia di un uomo bianco americano, veterano della guerra di Corea, razzista, interpretato - finalmente, dopo 3 film solo come regista - dallo stesso Eastwood.

trailer di Changeling



trailer di Gran Torino

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giovedì 16 ottobre 2008

"THE HURT LOCKER" di Kathryn Bigelow, 2008

Non ha l'impatto, lo stile, la profondità di Redacted di Brian De Palma, ma The Hurt Locker di Kathryn Bigelow è un film che consigliamo comunque di andare a vedere.

La regista statunitense, nota per la "velocità" e il "ritmo" dei suoi titoli più celebri (Point Break, Strange Days), nel suo film sull'Irak "rallenta" i tempi e si fa più riflessiva, lasciandoci finalmente la possibilità di "guardare" (nel)le inquadrature.
E qui si nota subito la differenza, per esempio, con un Clint Eastwood (Letters from Iwo Jima) o un De Palma: se questi ultimi ormai curano la messa in scena con la consapevolezza e la sicurezza
del "maestro" riconosciuto, la Bigelow al contrario, a volte, ci appare incerta, quasi un'esordiente. Come se in questo film, avendo scelto di lavorare per sottrazione (di eventi) per puntare sull'intensità, sull'essenza, alla fine emergessero quelle lacune e debolezze che in passato la regista riusciva a nascondere con montaggi vertiginosi e travolgenti scene d'azione. Per esempio, ogni volta che gli irakeni vengono inquadrati mentre dalle loro case osservano i soldati americani in azione, quegli sguardi sì ci inquietano, ma contemporaneamente abbiamo la sensazione che le inquadrature indugino troppo su di essi, rischiando così di produrre l'effetto didascalia. E' però proprio anche per alcuni di questi difetti che The Hurt Locker ci pare, finalmente, un film "personale", azzardato e positivo nel suo interrogarsi sulla guerra e i suoi effetti. La Bigelow in sostanza "rischia", a costo anche di risultare imperfetta, dirigendo però un film a suo modo coinvolgente e riuscito.
Qualcuno, nelle recensioni più superficiali, ha parlato di The Hurt Locker come di un film pro-Bush. Secondo noi The Hurt Locker è niente altro che un film sugli americani in guerra. Che ci piacciano o meno, in questo caso, non fa differenza. Ciò che conta, una volta tanto, sono le immagini, la storia raccontata e i suoi personaggi (bravissimo nella sua parte Jeremy Renner); niente divisioni manichee, messaggi morali o buoni sentimenti, ma solo un gruppo di uomini da una parte, il nemico dall'altra e in mezzo la guerra.
Un film dunque che rimanda al cinema nella sua dimensione più genuinamente popolare, ovvero quello che semplicemente mostrava su un grande schermo ciò che le persone curiose desideravano poter vedere coi loro occhi. Per poi - spesso - riflettere, ragionare, pensare.


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domenica 25 maggio 2008

"GOMORRA" di Matteo Garrone, 2008

Non bisogna farsi trarre in inganno. Gomorra sembra un bel film, ma è solo un lavoro ben fatto.
Garrone, che molti anni fa vinse un premio al festival cinema giovani di Torino, non è cambiato molto. Lo stile resta quello del suo primo lungometraggio; allora fece notizia il fatto che un giovane regista si occupasse di temi sociali, oggi fa notizia perchè il suo film è tratto da un bestseller.
Gomorra si lascia guardare: in alcuni momenti funziona, in altri meno, ma le 2 ore e mezzo scorrono.
Tuttavia, da qui a parlare - come ovviamente molti fanno - di "maestro" del cinema ne passa. Con tutto il rispetto, Rossellini, Antonioni e Fellini erano di altro spessore. Non è però un problema di classifiche e graduatorie. E'
piuttosto un problema di intensità: il difetto dei nuovi registi italiani è che
sembra vivan
o una realtà un pò troppo filtrata. A Napoli
Gomorra (film) non sconvolgerà nessuno, anche se se ne parlerà
in tv, fra studenti universitari, o in qualche ristorante etnico alternativo.
Perchè se davvero si ha voglia di scavare, indagare, smuovere, RISCHIARE, occorre per prima cosa mettersi a nudo di fronte al pubblico, fare in modo cioè che il pubblico si fidi di te. Diversamente, restano il mestiere e un pò di talento. Ciò che differenzia Gomorra da Primo amore (film di Garrone del 2004) è perciò il soggetto. Un soggetto forte, attuale, durissimo.
Da questo punto di vista meglio allora cercare in qualche negozio di dvd ben fornito il documentario Biutiful cauntri, che tratta il problema dei rifiuti in Campania. A differenza di Gomorra però, sporcandosi un pò di più le mani.


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martedì 1 gennaio 2008

"1977. IMMAGINI PER UN DIARIO RITROVATO" di Benini, Lo Sardo, Malfatto


SENZA ARTE NE' PARTE
Miseria di un documentario tv

Per il ciclo La grande storia è andato in onda ieri sera (30 dicembre 2007) su raitre un documentario intitolato 1977. Immagini per un diario ritrovato. Gli autori accreditati sono ben tre: Roberto Benini, Francesco Lo Sardo e Roberto Malfatto. Quest'ultimo in un'intervista ha dichiarato:

Volevamo restituire un clima, far vivere quelle emozioni anche a chi all’epoca non c’era ed è stato possibile grazie al materiale di privati, oltre a quello delle Teche Rai, che siamo riusciti a ritrovare. Non volevamo fare un film ‘politico’, esprimere giudizi anche se molte immagini sono abbastanza eloquenti perché il pubblico, un’idea, possa farsela da solo. Non è un film solo sul movimento ma in generale su un periodo che a nostro parere ha segnato la storia molto più del ‘68.

Ebbene, l'obiettivo che i tre si erano posti è stato certamente mancato.
E' sempre alquanto fastidioso scoprire che persone che hanno vissuto quell'anno così particolare siano capaci di ridurre un'esperienza collettiva di enorme rilevanza e significato storico come quella del movimento del 77 in pochi e scontati luoghi comuni. In questo caso specifico, la complessità e il peso di quell'esperienza non si riesce più a porre in relazione con la realtà vissuta in quanto la prima è costretta nella carreggiata di una sorta di autostrada della visione in cui ogni asperità viene accuratamente appianata dal rullo compressore dell'ideologia buonista di cui i tre autori sono portatori consapevoli. Ecco allora come comunisti, fascisti, politici, giornalisti, studenti, femministe, poliziotti e carabinieri finiscono uniti "tutti insieme appassionatamente" in uno spettacolo di amore e morte che ha da comunicare un solo inutile messaggio: "Anche noi [i "registi"] c'eravamo". Dove e come non ci è dato saperlo.
Se poi si scende su un piano tecnico-estetico la situazione, se possibile, peggiora. Il film non è altro che una confusa accozzaglia di immagini d'epoca (tra l'altro per il 90% viste e riviste) sostenute da un'interminabile e ridondante susseguirsi di celeberrime canzoni rock, e commentate da un testo scritto ad hoc, per giunta "recitato" da un'attrice da filodrammatica con tanto di leggio d'ordinanza, e che senza alcun rispetto per l'intelligenza dello spettatore, viene pure inquadrata mentre esegue i "pezzi di bravura".
Nel film è totalmente assente una qualunque idea portante degna di essere chiamata tale, così come sono assenti senso della durata dell'inquadratura, del ritmo, dell'intensità, ipotesi di montaggio ecc. In breve, è assente un benchè minimo straccio di stile. Uno dei vertici di tanta miseria ce lo forniscono le immagini del funerale di Giorgiana Masi, quando durante il corteo funebre un sapiente rallenti (o una zoomata, non ricordiamo più con precisione) indugia su uno dei giovani che porta la bara, che altri non è che il famoso Francesco Rutelli... E che dire poi dell'epilogo, in cui una selezione delle immagini appena mostrate vengono rimontate (si fa per dire) sulle note di Like a rolling stone (anch'essa, senza pietà, malamente tranciata a metà per farci riascoltare il ritornello)?
Il film si conclude con una frase, falsa, ottusa e paradossale come tutto il documentario: "Di tutto ciò che ha caratterizzato quest’anno, resterà solo il ricordo della violenza".
Falsa perchè per sfortuna degli autori ci sono ancora molte persone che di quell'anno, oltre a ricordare tante altre cose, sono capaci di rivendicarne tutta la ricchezza e le contraddizioni (e non solo la parte commestibile, quella buona per la tv); ottusa perchè vorrebbe farci credere che scivolare sulla superficie degli eventi equivalga a parteciparvi (e allora puntuale il rammarico che la Storia non riesca a piegarsi al bisogno di una storia a proprio uso e consumo) ; paradossale perchè il documentario è costruito su immagini di scontri, morti e funerali, e dunque legittimamente ci chiediamo cosa può avere impedito agli autori di mostrare in alternativa alla violenza 50 minuti di indiani metropolitani, sedute di autocoscienza, assemblee, radio libere ecc.

Non ci resta a questo punto altro da fare che suggerire a chi fosse interessato ai temi che il documentario di raitre avrebbe voluto affrontare di recuperare, per cominciare, alcuni film di Alberto Grifi (Parco Lambro, Anna, Lia, Michele alla ricerca della felicità), e in qualche modo di contribuire affinchè il "diario ritrovato" di Benini, Lo Sardo e Malfatto venga nuovamente perduto. E sperare che a qualche insegnante illuminato non venga mai in mente di mostrarlo ai suoi allievi per spiegare gli anni settanta in Italia.


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venerdì 23 novembre 2007

"LA RAGAZZA DEL LAGO" di Andrea Molaioli, 2007

La ragazzo del lago è un film sopravvalutato, ma ci teniamo a dire che questo giudizio non si basa su facili e ideologici preconcetti. In fondo siamo indulgenti, specie con gli esordienti, e perciò siamo riusciti a perdonare al regista la serie di inquadrature-spot della prima parte del film (vieni anche tu a visitare il Friuli Venezia-Giulia...), abbiamo accettato il fatto che la sceneggiatura fosse firmata dall'infaticabile Sandro Petraglia (chi si ricorda di Auranche e Bost?), siamo riusciti a comprendere gli inevitabili compromessi necessari a fare sì che un'opera prima venisse presentata al festival di Venezia e distribuita nelle sale di tutta Italia, ma terminata la proiezione siamo comunque rimasti delusi, e nessuno può volercene se siamo andati a vedere il film aspettandoci dal regista per prima cosa un'idea di cinema, o quantomeno di messinscena.
Li abbiamo visti in centinaia di film quei lenti e avvolgenti movimenti di macchina sul personaggio solo e seduto in cucina (o sdraiato, come in La ragazza del lago), ma nessuno, nemmeno Bertolucci, ci ha mai spiegato perchè la cinepresa non resta ferma. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di stile, o di ispirazione, ma queste sono nella maggioranza dei casi solo parole compiaciute, frasi fatte, e null'altro.
A questo punto potrebbe non sembrare ma in verità non è che qui ci interessi demolire il film di Andrea Molaioli in particolare, che per altro si fa guardare, complice la trama e la solita ottima interpretazione di Toni Servillo. Ci interessa piuttosto sottolineare come, riprendendo l'esempio del movimento di macchina di cui sopra, sia divenuta una costante il fatto che il vertice massimo cui riescono a giungere i nomi nuovi del cinema italiano altro non sia che la debole copia di un clichè. Per cui nulla in questo film riesce a essere memorabile, nulla riesce a sorprenderci, nulla è mai davvero interessante. Il cinema di Molaioli e di tanti altri cineasti emergenti più che una "finestra sul mondo" appare come un riflesso sulla finestra di casa: tanti credono che ciò che questa incornicia sia il mondo esterno, pochi si accorgono che il riflesso proviene dal televisore in salotto.


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mercoledì 14 novembre 2007

"LA GIUSTA DISTANZA" di Carlo Mazzacurati, 2007

A volte si parla bene di certi film italiani solo perché superano il livello di indecenza media a cui siamo ormai abituati da tempo, per lo meno rispetto ai film che vengono distribuiti al cinema. Spesso poi le lodi vengono accentuate se il film in oggetto viene realizzato da cineasti progressisti, sensibili alle problematiche sociali e politicamente riconducibili a un’area non apertamente reazionaria . E’ il caso per esempio dei film di Carlo Mazzacurati.
Per la sua ultima pellicola La giusta distanza in molti si sono ritrovati concordi nel salutare il film come l’opera di un regista ritrovato, come una piacevole sorpresa rispetto alle ultime fatiche del cineasta veneto. Probabilmente tutto questo è vero, ma non sufficiente comunque a fare di La giusta distanza un film memorabile. Quasi tutto quello che viene mostrato nel film è infatti poco più che una corretta illustrazione di una sceneggiatura molto attentamente elaborata e costruita. Quasi tutto appare pianificato in ogni dettaglio, col risultato che ogni inquadratura finisce con l’esistere solo per se stessa, senza altro rapporto con le altre inquadrature se non quello direttamente funzionale alla narrazione. Il microcosmo descritto appare blindato dalle esigenze della finzione filmica e dalla necessità di trovare le forme più delicate per esplicitare il giudizio apparentemente neutro del regista su quanto mostrato, e si ha la sensazione durante la visione del film che la realtà, fosse anche quella dei sentimenti recitati degli attori, non farà mai irruzione sulla pellicola, non incrinerà mai il disegno precostituito in sceneggiatura, non lascerà cioè tracce dalle quali ripartire per costruire un discorso altro. Ancora una volta, dunque, un film dai toni pacati ma che vorrebbe, attraverso il contrasto con la durezza degli eventi mostrati, scuotere la coscienza dello spettatore, che invece non viene mai graffiata, smossa, sollecitata. A meno che lo spettatore non sia simile per temperamento al regista o si riconosca nel giovane protagonista del film, l’aspirante giornalista che alla fine abbandona il piccolo paesino del delitto, solo, ma a suo modo fiero che giustizia sia stata fatta, e a suo modo fiero di avercela fatta.


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