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giovedì 11 novembre 2010

CINEMATOGRAFO POVERANIA


Il Kinoglaz cineforum torna dopo una lunga inattività forzata a scrivere sul blog. Approfittiamo quindi di questo post per scursarci del lungo silenzio e per salutare tutti i lettori, che per mesi hanno atteso invano nostre notizie.
Si parte con una novità. Questo inverno abbiamo infatti deciso di abbandonare momentaneamente le proiezioni del mercoledi per lasciare spazio ad un progetto indipendente come quello del Cinematografo Poverania:

Il cinematografo Poverania è nato a Roma ed è alla sua quarta edizione. E’ un cineforum che dà spazio ai film e alle produzioni indipendenti che altrimenti non si vedrebbero proiettate da alcuna altra parte. Da questa estate il Poverania è sbarcato a Venezia, e a breve partirà un’edizione a Milano e una a Padova. Il cinematografo Poverania ha trovato spazio nella città di Torino al centro sociale Askatasuna, in collaborazione con il Kinoglaz cineforum

Domenica 31 ottobre 2010 e domenica 7 novembre si sono tenute la prime due proiezioni del cinematografo Poverania, con i film L’invasione degli Astronazi di Alberto Genovese Ai confini della fandonia di Dagoberto Brasile.
Questa domenica 14 novembre, alle ore 21, al centro sociale Askatasuna verrà presentato il film The Hunt di Andrea Iannone:

Nel cuore di Roma, il malvagio Aldous tiene prigioniero un mostro in cantina. Ma un giorno, la bestia, riesce a scappare dalle grinfie del carceriere. Inizia la caccia che dà il titolo al film e che vede coinvolti lo stesso Aldous, il vendicativo cacciatore di mostri Markus e un detective americano di nome Mitchell che indaga su alcuni orribili delitti. Un horror/splatter low budget, ironico e appassionato, firmato da un giovanissimo filmaker romano (classe 1988), quì al suo esordio nel lungometraggio. Il film è in lingua inglese, sottotitolato in italiano.

A seguire e curare le proiezioni Massimo Russo, regista di Torino Nera, film di culto della scena indipendente no-budget torinese.


Questo l'elenco completo delle proiezioni:

31/10/2010 L'invasione degli Astronazi


07/11/2010 Ai confini della fandonia

14/11/2010 The Hunt

21/11/2010 The Slurp

28/11/2010 Torino Nera

05/12/2010 La Grata

Per altre info: http://poverania.com/


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domenica 6 giugno 2010

Mercoledi 9 giugno 2010 proiezione di "TERRA IN TRANCE" di Glauber Rocha, 1966



Il Kinoglaz cineforum prosegue anche nel mese di giugno. Questo mercoledì verrà proiettato il film di Glauber Rocha del 1966 Terra in trance. Girato un anno dopo il golpe militare del 1964 in Brasile, Terra in trance continua a stupire per l'energia con la quale è stato girato, per il suo stile libero e apparentemente caotico, per gli omaggi dichiarati alla nouvelle vague francese, al cinema di ricerca, ai film di Ejzenstejn. Chi non avesse mai visto un film di Glauber Rocha con Terra in trance potrà farsi un'idea piuttosto chiara di un cinema che all'epoca provocava anche furiosi dibattiti e scontri, che poteva essere amato o odiato, intensamente, ma che certamente non lasciava indifferenti. Un cinema che ha sempre voluto essere contro Hollywood e in lotta contro l'imperialismo culturale dell'occidente, e che per questo, non ha potuto che uscire sconfitto dalla battaglia.

Il film verrà proiettato in lingua originale sottotitolata in italiano. Si comincia alle 21.30 al centro sociale Askatasuna. L'ingresso è libero.


Trailer de Terra em Transe from sessões de cinema on Vimeo.

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lunedì 31 maggio 2010

Mercoledi 2 giugno 2010 proiezione di "SANS SOLEIL" di Chris Marker, 1983


Il Kinoglaz cineforum presenta questa settimana uno dei film più belli di Chris Marker, figura importantissima quanto atipica del cinema francese. Regista politico, non esplicito ma nelle pieghe della scrittura e della messinscena cinematografica, di cui interroga incessantemente i dispositivi.

Il film è del 1983. Il titolo deriva dal ciclo di canzoni Senza sole di Modest Mussorgskij. Sans Soleil è una meditazione sulla natura della memoria umana e l'oblio. Sull'incapacità di ricordare il contesto e le sfumature della memoria e, di conseguenza, come la percezione di storie personali e globali sia artificiosa. Un film al contempo spaesante e familiare, nonostante le distanze che racconta.

Presentazione redatta da Gianluca P.


Soggetto (dal press-book del film): «Una donna sconosciuta legge e commenta le lettere che riceve da un amico cameraman free-lance che percorre il mondo ed è attratto in maniera particolare dai "due poli estremi" della sopravvivenza, il giappone e l'Africa -quest'ultima rappresentata da due paesi che, malgrado il ruolo storico che hanno avuto, sono tra i più poveri e dimenticati: la Guinea Bissau e il Capo Verde. Il cameraman si interroga (come tutti i cameraman, in ogni caso quelli che si incontrano al cinema)sul senso della rappresentazione del mondo di cui egli è l'inarrestabile strumento, e sul ruolo della memoria che egli contribuisce a costituire. Un suo compagno giapponese, risponde da parte sua aggredendo le immagini della memoria, smembrandole al sintetizzatore. Un cineasta si impadronisce di questa situazione e ne fa un film, ma invece di incarnare questi personaggi e di mostrare i loro rapporti, reali o supposti, preferisce organizzare gli elementi de dossier come se si trattasse di una composizione musicale, con temi ricorrenti, contrappunti e fughe speculari: le lettere, i commenti, le immagini inventate, più alcune immagini prese a prestito. Così da queste memorie giustapposte nasce una memoria fittizia, e così come si poteva leggere un tempo fuori dalle portinerie " la portinaia è sulle scale", si vorrebbe in questo caso far procedere il film dal cartello "la finzione è all'esterno"».

Inizio proiezione ore 21.30 presso il Csoa Askatasuna, ingresso libero, versione originale sottotitolata in italiano.


Sans Soleil (prólogo)
Caricato da planocenital.

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venerdì 21 maggio 2010

Mercoledi 26 maggio 2010 proiezione di "TUTTE LE ORE FERISCONO... L'ULTIMA UCCIDE" di Jean-Pierre Melville, 1966


Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide, incredibile "traduzione" italiana del titolo originale Le deuxième souffle è forse il meno noto (in Italia) fra i grandi film di Melville, pur rappresentando una tappa fondamentale nella filmografia del regista francese. Ultimo suo film in bianco e nero, Tutte le ore feriscono... costituisce per lo stesso Melville un modello di riferimento per suoi i film successivi, tanto formalmente quanto a livello tematico. Soprattutto i temi dell'amicizia, della lealtà, del codice d'onore dei gangsters trovano qui una prima sintesi efficace e compiuta, successivamente eguagliata ma mai davvero superata, per quanto Le Samourai (Frank Costello faccia d'angelo in italiano...) , girato l'anno dopo, resti la pellicola in assoluto più influente ed emozionante realizzata da Melville.
Il film, come di consueto, verrà proiettato in lingua originale con sottotitoli in italiano. Scelta peraltro obbligata, dal momento che non esiste disponibile una versione doppiata in italiano.

Si inizia alle 21.30, presso il centro sociale Askatasuna, ingresso libero.

Ascolta la presentazione su radio Blackout




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domenica 16 maggio 2010

Mercoledi 19 maggio 2010 proiezione di "CONTRATTO PER UCCIDERE" di Don Siegel, 1964










Originariamente pensato e realizzato per la tv, Contratto per uccidere verrà poi distribuito nelle sale cinematografiche in quanto giudicato troppo violento per il pubblico del piccolo schermo. Anche a distanza di quasi cinquant'anni tale scelta risulta comprensibile, se pensiamo a quello che passava in tv nei primi anni sessanta. Non tanto e non solo per ciò che nel film viene mostrato, quanto per la durezza dei caratteri e delle situazioni, spesso un gradino oltre di quanto ci si potrebbe aspettare.
Contratto per uccidere (The killers in originale), uscito nel 1964, è ricordato soprattutto per essere il remake de I gangsters (sempre The Killers in originale) di Robert Siodmak, film più celebre e celebrato di quello di Siegel, certamente più visto e analizzato, per quanto le inquadrature oblique di Contratto per uccidere, e lo spietato personaggio interpretato da Lee Marvin non abbiano meno influenzato e lasciato il segno nei registi emergenti dell'epoca e in quelli successivi rispetto al film di Siodmak.

Si inizia alle 21.30, ingresso libero. A meno di sorprese dell'ultima ora, il film verrà proiettato in versione doppiata in italiano.

ascolta la presentazione su radio blackout

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domenica 9 maggio 2010

Mercoledi 12 maggio 2010 proiezione di "RIFIFI" di Jules Dassin, 1955


Un classico del cinema noir, o forse sarebbe meglio dire del polar francese verrà proiettato mercoledi 12 maggio al centro sociale Askatasuna: si tratta di Rififi, del regista statunitense (ma di origini russe) Jules Dassin, uno dei tanti uomini di cinema costretti verso la fine degli anni quaranta del novecento ad emigrare dagli Usa in Europa perchè finito nella famigerata black-list di McCarthy dei sospetti simpatizzanti comunisti, in quello che passò alla storia come il periodo della "caccia alle streghe".
Rififi, parola inventata dal romanziere Auguste Le Breton che significa "scontro fra bande", racconta l'organizzazione e la realizzazione di un furto in una gioielleria, ed ebbe all'epoca della sua uscita un enorme successo di pubblico e critica, divenendo il modello di tanti film successivi. Lo stesso I soliti ignoti di Mario Monicelli, giusto per citare un titolo molto noto in Italia, è di fatto una parodia del film di Dassin.
Molti i momenti da ricordare, fra cui la sequenza del night (in cui l'immancabile femme fatale di turno canta di fronte ai membri della band), che resta uno dei momenti esteticamente più evocativi ed eleganti di tutto un genere cinematografico, e lo stesso Jules Dassin, che oltre a dirigere il film interpreta la parte di Cesare "il milanese", il quale offre il ritratto di un personaggio dandy e criminale mai abbastanza celebrato.

Il film verrà presentato in lingua originale sottotitolata. Si inizia alle 21.30, ingresso libero.

ascolta la presentazione su radio blackout

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lunedì 3 maggio 2010

Mercoledi 5 maggio 2010 proiezione di "FEMMINA FOLLE" di John M. Stahl, 1945


Mercoledì 5 maggio alle 21.30 si terrà la proiezione di uno dei film americani più riusciti e conturbanti dell'immediato secondo dopoguerra, Femmina folle (Leave her to heaven in originale), realizzato da un poco conosciuto eppure notevole regista del cinema classico statunitense, John M. Stahl. Negli anni trenta Stahl realizzò alcuni film di grandissimo successo di pubblico, che certamente influenzarono molti registi, alcuni dei quali, in seguito, verrano celebrati sulle pagine dei Cahiers du cinéma. Uno di questi è senz'altro Douglas Sirk, che girerà addirittura due remake di altrettanti film di Stahl, Imitation of Life e Magnificent Obsession. Chi conosce questi film nella versione di Sirk, riconoscerà nell'uso della luce e del colore, nelle scenografie e nelle ambientazioni le forti analogie con Femmina folle, che pensiamo possa essere considerato la pietra di paragone del melodramma cupo e perturbante tanto di Douglas Sirk quanto, per esempio, di Fassbinder. A unire questi tre registi non solo l'aspetto della messa in scena, ma soprattutto l'inserimento all'interno di intrecci convenzionali di elementi del rimosso , sessuali e non, quali l'incesto, la follia, la malvagità.
Determinante, non bisogna dimenticarlo, per la riuscita del film, l'interpretazione di Gene Tierney, probabilmente l'attrice più amata dai cinefili di ogni generazione, autentica stella dei b-movies degli anni quaranta e cinquanta.

Ricordiamo ancora che il film verrà proiettato in lingua originale con sottotitoli in italiano. Si inizia alle 21.30, ingresso libero.



Trailers From Hell : Leave Her To Heaven - These bloopers are hilarious

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giovedì 22 aprile 2010

Mercoledi 28 aprile proiezione di "PIERROT LE FOU" di Jean-Luc Godard, 1965





Dopo una serie di film inediti nelle sale italiane, perlopiù recenti e recentissimi, il Kinoglaz cineforum propone un classico della nouvelle vague francese, e uno dei film più noti di Jean-Luc Godard, Pierrot le fou. Film arcinoto, certo, eppure anche in questo caso è bene sottolineare che la versione italiana uscita al cinema nel 1965 e più volte passata in tv, risulta tagliata di oltre 20 minuti. Coloro che non hanno mai visto la versione originale e integrale del bellissimo film di Godard avranno l'occasione mercoledì 28 aprile di "colmare la lacuna" alle ore 21.30 al centro sociale Askatasuna. Gli altri, contiamo non si lascino sfuggire l'opportunità di rivedere il film, magari per la prima volta su grande schermo. L'ingresso, come sempre, è libero.

Ascolta la presentazione su radio blackout

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giovedì 15 aprile 2010

21 aprile, ore 21.30: proiezione di "BEAU TRAVAIL" di Claire Denis, 1999







In versione originale, con sottotitoli in italiano realizzati appositamente per l'occasione dal Kinoglaz, mercoledi 21 aprile verrà proiettato il film del 1999 di Claire Denis Beau travail. Difficile da catalogare, di una freschezza e di una libertà che siamo soliti incontrare nelle opere degli anni 60 e 70, Beau Travail prende spunto dal romanzo di Herman Melville Billy Budd il marinaio, ma è ambientato a Gibuti, e i protagonisti non sono marinai, ma soldati della legione straniera francese.
Quando a Gibuti arriva il soldato Gilles Sentain, il sergente Galoup percepisce "qualcosa di indefinito", e l'istinto gli suggerisce che si tratta di una minaccia. Il conflitto tra Galoup e Sentain è l'asse portante su cui si regge il film, che comunque si apre a numerose altre chiavi di lettura: l'Africa, le donne africane, la musica e il ballo, le pulsioni omoerotiche represse, l'inadeguatezza e l'assenza di "un posto sulla terra", il colonialismo, il cinema francese, e altro ancora. Agli appassionati cinéphiles non potrà sfuggire il fatto che il sergente Galoup sia interpretato da Denis Lavant, "Alex", magnifico attore alter ego di Leos Carax in Boy meets girl, Rosso sangue e Gli amanti del Pont-Neuf; così come un sottile brivido non potrà che percorrere le loro schiene nello scoprire che il capitano della legione straniera a Gibuti si chiama Bruno Forestier, e che l'attore che lo interpreta è proprio Michel Subor, ovvero il "petit soldat" del film di Godard, che torna così a vivere sul grande schermo, sottolineando il profondo legame non solo affettivo, ma letteralmente di carne e sangue di Beau travail con la nouvelle vague e con la storia del cinema. A tutto questo vogliamo ancora aggiungere che Beau travail ha un incipit e un finale tra i più belli e meglio girati che ricordiamo di avere visto, semplici nella loro idea, eppure così ben fatti da fare venire voglia di girare un film.

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domenica 11 aprile 2010

Mercoledi 14 aprile proiezione di "CURE" di Kiyoshi Kurosawa, 1997



Mercoledi 14 aprile si terrà la proiezione del film di Kiyoshi Kurosawa Cure, in versione originale sottotitolata in italiano. Cure è di fatto il primo film di Kiyoshi Kurosawa distribuito nei circuiti commerciali occidentali, quello che lo ha fatto conoscere un pò in tutto il mondo, e a tutt'oggi secondo noi il suo film più bello. La visione apocalittica della civiltà contemporanea che in Cure viene rivelata con un'originale forza espressiva, verrà ripresa in molti film successivi, alcuni dei quali altrettanto se non più inquietanti di questo. Cure resta però secondo noi il film più importante realizzato da Kurosawa, quello che fra tutti merita senz'altro di essere visto.
Si comincia alle 21.30, come sempre al centro sociale Askatasuna di corso regina 47 a Torino.

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martedì 6 aprile 2010

7 aprile 2010: proiezione di "THE LIMITS OF CONTROL" di Jim Jarmusch, 2009


Il dubbio che Jarmusch sia un pò sopravvalutato lo abbiamo sempre avuto. Tuttavia, questo suo ultimo film (finora inedito in Italia) mette a dura prova le certezze dei detrattori quanto quelle degli estimatori. The Limits of Control, costruito per il piacere degli occhi e delle orecchie, secondo noi un pò meno per quello della mente, ci pare senz'altro il più personale e sentito dei suoi (pochi) film. La ricerca formale e la scelta delle inquadrature, il lavoro sul tempo, mostrano un impegno non fine a se stesso, ovvero il tentativo di cercare soluzioni più vicine al cinema europeo e orientale che al cosiddetto "cinema indipendente" statunitense, quello da festival alternativo, del quale Jarmusch è certamente un'icona ben definita e classificata; il desiderio, forse, di misurarsi con una cultura da sempre ammirata ma finora non realmente assorbita e rielaborata.
La nostra speranza è che Jarmusch d'ora innanzi si spinga oltre, superi i "limiti del controllo", seguendo la traccia lasciata da questo suo ultimo interessante film. Il timore, al contrario, è che dopo questa prova di scarso successo di pubblico, Jarmusch in futuro torni sui suoi passi, e ci lasci con la sensazione che The Limits of Control fosse soltanto un bluff.

Mercoledi 7 aprile, ore 21.30, centro sociale Askatasuna, corso regina 47, torino

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martedì 9 marzo 2010

10 MARZO 2010: Riapertura del Kinoglaz cineforum



Mercoledi 10 marzo 2010 riprendono le proiezioni del Kinoglaz cineforum con il film di Steve McQueen Hunger. Il film, vincitore della camera d'or come miglior opera prima al festival di Cannes del 2008, non è mai stato distribuito in Italia, e viene presentato in lingua originale con sottotitoli. Hunger è incentrato sulla figura di Bobby Sands, militante dell'IRA morto in carcere dopo 66 giorni di sciopero della fame.

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lunedì 20 aprile 2009

Presentazione "L'ANGELO AZZURRO", di Josef von Sternberg


Film tedesco degli anni ’30, Der Blaue Engel esprime appieno il malessere, la frustrazione, il senso di sconfitta che la Germania respirava in quegl’anni, reduce della sconfitta subita nella Grande Guerra.
La figura del professore di ginnasio che si innamora della bella Lola, ballerina e cantante di un locale notturno il cui nome dà il titolo al film, è l’emblema del declino dei vecchi valori della classe borghese della Germania guglielmina.
Dopo aver sposato Lola, il professore lascia la cattedra per poterla seguire nelle tournées teatrali. Senza più un soldo è costretto ad umiliarsi, prendendo anch’esso parte agli spettacoli.
Memorabile la scena in cui, durante un’esibizione, gli viene imposto di imitare il verso del gallo per divertire il pubblico. E’ qui che traspare la disperazione e l’angoscia di un uomo che ha perso tutto: rispettabilità, stima e credibilità.
Lo smarrimento individuale e sociale, ben incarnato da tale personaggio, rappresenta il crollo di una società che da lì a poco aprirà le porte al nascente nazismo.
Secondo film sonoro del regista, primo e unico diretto in Germania, ha lanciato nelle vesti della bella e conturbante Lola un’allora sconosciuta Marlene Dietrich che diventerà, assieme alla svedese Greta Garbo, una delle due stelle mondiali dello start system hollywoodiano.

Erica C.


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lunedì 23 marzo 2009

Presentazione ciclo "Made in Usa"





Cosa unisce i 4 film di questo ciclo? Innanzitutto, il fatto di essere stati realizzati negli USA. La seconda cosa, di essere tutti film recenti, usciti in sala tra il 2007 e il 2008. La terza cosa, il fatto di essere dei film programmati nelle sale di mezzo mondo (con l’eccezione di Redacted, che riguarda però, almeno in Europa, solo l’Italia), quindi complessivamente visti da milioni di persone. La quarta cosa è relativa ai registi di questi film, tutti quanti considerati degli “autori” cinematografici, sebbene in misura e proporzioni diverse. La quinta cosa riguarda lo stile di questi film, ognuno dei quali ben definito, riconoscibile e personale; tutti i film sono in una certa misura “sperimentali” rispetto al circuito (mainstream) e al pubblico (medio) ai quali sono rivolti. Infine, tutti i film ci parlano, da punti di vista diversi, dell’America di oggi, o meglio, della recentissima America pre-Obama e pre-Crisi. Sono film che si confrontano con la guerra e le sue immagini (Redacted), con il terrore della fine (Cloverfield), con il mito per eccellenza della cultura popolare e musicale del dopoguerra, Bob Dylan (I’m not there), con l’assenza, di riferimenti, di affetti, di sogni (Paranoid Park).
I titoli di 3 di questi 4 film (solo I’m not there è uscito in Italia col titolo tradotto, Io non sono qui) sono stati lasciati in inglese. Non tanto un segno della colonizzazione anche linguistica che subiamo da oltreoceano, senz’altro – anche inconsapevolmente – un segno di prossimità rispetto ai temi affrontati. 4 film, fondamentalmente, che ci riguardano, molto più di quanto vogliamo pensare.

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mercoledì 25 maggio 2005

Presentazione "Milano calibro 9"

MILANO CALIBRO 9

di Fernando di Leo Italia, 1972

Chiudiamo il ciclo “Generi del cinema popolare italiano” con quello che è il più interessante dei quattro film da noi proposti, Milano calibro 9 di Fernando di Leo. La trama prende spunto da alcuni racconti di Giorgio Scerbanenco (contenuti nella raccolta appunto intitolata Milano calibro 9), rielaborati e adattati per lo schermo dallo stesso di Leo. Ugo Piazza (questo il nome del protagonista, interpretato da Gastone Moschin) è un malavitoso accusato, sia dalla polizia che dalla sua stessa banda, di avere rubato e poi nascosto 300.000 dollari al boss per il quale lavorava. Da qui si snoderanno tutta una serie di intrighi, relazioni e colpi di scena che porteranno al violento e tragico epilogo della storia.

Modello di riferimento dichiarato sono i film di Jean-Pierre Melville, il regista francese che molto umilmente di Leo considerava troppo importante e inavvicinabile per essergli accostato, rispetto ai quali tuttavia Milano calibro 9 riesce spesso a non sfigurare. Pensiamo ai titoli di testa (una Milano invernale ripresa alle prime luci dell’alba), alle sequenze alla stazione centrale, all’incontro di Ugo con Chino e altri momenti del film, che in quanto a atmosfera e malinconia non hanno nulla da invidiare ai personaggi e alla Parigi di Le Samourai e Un flic; ancora rispetto a Melville, più che gli aspetti dell’amicizia e del fatalismo, in una certa misura presenti anche nel film di Fernado di Leo, in Milano calibro 9 emergono maggiormente i temi dell’intelligenza e della fedeltà, immersi in un contesto di spietata violenza criminale, che permette al film di non scivolare sul piano di un facile e schematico moralismo. Per questo Ugo Piazza può risultare a seconda delle interpretazioni un cinico, un semplice ladro e assassino, un eroe, un antieroe, uno stupido ecc. Non mancano le cadute di stile (il personaggio del poliziotto di sinistra, le furibonde sparatorie dalle quali si esce illesi, una caratterizzazione dei personaggi femminili – questa sì – di serie b), che possiamo dire tutto sommato assenti nei film di Melville, ma l’intensità emotiva che i personaggi riescono a comunicare, l’ottima direzione degli attori, la forza della storia raccontata, le splendide musiche di Luis Bacalov eseguite dagli Osanna (per rimanere soltanto sul piano di consumo immediato del prodotto), fanno di questo film il migliore esempio di noir italiano che ci venga in mente.

Non ci risultano altre prove di questo livello da parte di altri registi italiani, e certamente non è un caso. Il noir, per quanto e in quanto fortemente codificato, resta il genere cinematografico che più si avvicina alla tragedia greca classica. Affrontarlo con superficialità non potrebbe che portare a risultati imbarazzanti. È principalmente per questo motivo che secondo noi Milano calibro 9 è rimasto un caso quasi isolato all’interno del cinema popolare italiano. Per lo stesso motivo non deve perciò stupire che a inaugurare un nuovo e ricco filone sarà, nello stesso anno, un altro film: La polizia ringrazia, di Stefano Vanzina, capostipite di quello che verrà in seguito definito poliziottesco, ovvero il cinema poliziesco all’italiana.

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mercoledì 4 maggio 2005

Presentazione della rassegna "Generi del cinema popolare italiano"

SUL CINEMA POPOLARE ITALIANO


L’ultima mostra di Venezia, quella del 2004, si era – fra le altre cose – caratterizzata per avere dedicato una retrospettiva al cinema italiano di genere degli anni Settanta. Pur senza entrare nel merito di quella specifica proposta, ci interessa qui constatare che oggi quei film, all’epoca certamente disprezzati dalla maggior parte dei critici che ora li esaltano, dopo 30 anni ha finalmente superato – se così si può dire – “l’esame” della critica, e può perciò legittimamente diventare oggetto di dibattito e studio anche in ambiti “seri” (istituzionali), quelli delle accademie, dei musei, dei festival appunto.

Anche noi del Kino Glaz cineforum abbiamo deciso di proporre una serie di film di quel periodo, così particolare per la storia di questo paese, per un motivo abbastanza semplice: secondo noi questi film rappresentano l’ultimo esempio in occidente, seppur con evidenti limiti, di cinema realmente (verrebbe da dire, anche se il termine non ci piace, autenticamente) popolare, intendendo in primo luogo con questo aggettivo quei film destinati a un pubblico il più possibile vasto, eterogeneo e senza pretese, se non quella di non rimpiangere i soldi spesi per il biglietto; in secondo luogo, ed è quello che fa la differenza fra un film di Mario Bava e uno con Alvaro Vitali, film realizzati da persone che, oltre ad amare profondamente (nella maggior parte dei casi) il loro lavoro, erano obbligate a rispettare con pochi soldi degli standard qualitativi molto elevati che oggi nemmeno le maxiproduzioni (vedi Benigni) riescono più a raggiungere. Questo perché, detto banalmente, il confronto tra film e film era tutto interno al cinema.

Dalla metà degli anni Settanta, lentamente ma inesorabilmente, il cinema di genere comincerà a tramontare, e progressivamente sempre meno gente si recherà in sala. L’immaginario delle persone si restringerà alle dimensioni dello schermo televisivo (all’epoca Drive-in e Dallas, oggi Zelig e Perlasca) al punto che il destino riservato ai film che abbiamo messo in programma in questo ciclo (che, è importante sottolinearlo, all’epoca furono visti al cinema da milioni e milioni di persone, e non certo da pochi “intellettuali”) è ancora una volta quello, inoffensivo e celebrativo, del museo.

Ci vogliono molta immaginazione e ottimismo per pensare oggi che una persona che veda in televisione i titoli di testa virati seppia di “Cosa avete fatto a Solange?” non cambi immediatamente canale per controllare che il televisore non si sia rotto, eppure è proprio questo che succede (non è una battuta). Succede cioè che persino il cinema di serie B, in quanto ancora costruito sfruttando meccanismi espressivi del mezzo cinema, a cui doveva necessariamente rendere conto, spiazza lo spettatore privo di memoria. Non bisogna però credere che si tratti di una sorta di dialettica tra linguaggi vecchi (il cinema) che cedono il passo a linguaggi nuovi (la televisione); si tratta piuttosto dell’impoverimento e di quella che potremmo chiamare desemantizzazione della lingua delle immagini in movimento. Sarebbe come dire, per tentare un paragone, che chi scrive nei messaggi inviati con il telefono cellulare grz e ke invece di grazie e che sta usando un nuovo linguaggio. Questo sarà certamente più funzionale ai ritmi dei nostri tempi, ma sicuramente non arricchirà le nostre capacità di restituire attraverso il linguaggio la complessità del reale.

Nessuna rivalutazione, dunque, e soprattutto nessuna celebrazione. Quello che ci interessa, come sempre, è riappropriarci di quell’immaginario di cui parlavamo prima, anche quando è di basso profilo. Della critica dei singoli film, invece, ce ne occuperemo la prossima volta.

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mercoledì 16 marzo 2005

Presentazione "Big fish"

«BIG FISH» di T. Burton (2004)

Tim Burton si è ritagliato da tempo, all’interno dell’establishment holly-woodiano, un piccolo regno fatto soprattutto di atmosfere oscure, inquietanti, popolate da mostri borderline che galleggiano nel limbo tra “società civile” e un mondo “altro”, totalmente ricoperto dalla sua sfrenata fantasia (anzi, proprio dallo sconfinamento dei suoi personaggi tra i due mondi nascono alcuni dei suoi film più riusciti, come i due Batman, “Il mistero di Sleepy Hollow”, “Nightmare before Christmas” e, perché no, anche “Ed Wood”, folletto del cinema di serie z, personaggio assolutamente al confine tra “normalità” e follia). “Big fish” è la summa di tutte le storie di personaggi straordinari che ha narrato finora, rimanendo intatta in fondo la molla alla base dei suoi film, un personaggio fuori da ogni canone che interseca la mediocrità della vita dei “normali” (vedi sopra), non ci mostra più semplicemente le avventure di un solo freak, ma quest’ ultimo che le ricorda TUTTE. Come se Batman, ormai invecchiato, raccontasse tutte le sue imprese a una platea di stupefatti spettatori, invece che agire. Inventare, manipolare, impastare, narrare come un vecchio cantastorie, farcire la monotonia di un reale altrimenti privo d’interesse sono gli elementi basilari che Burton mette in gioco in questo film e che fanno di quest’ opera la più teorica e programmatica delle sue. Big Fish è un manifesto poetico/estetico e di sicuro il suo capolavoro.

Un padre, fermo a letto da una grave malattia (ottima idea di sceneggiatura, l’ immobilità come negazione dell’ azione, ma condizione prima per l’ evocazione ), rincontra il figlio dopo tre anni di silenzio reciproco, causato dal rifiuto del secondo di essere solo una parentesi all’ interno dei mirabolanti racconti che il primo ha intessuto nel corso degli anni sulla propria vita. Il nuovo incontro tra i due fa scattare e poi chiudere definitivamente il confronto (e lo scontro) tra chi è sempre voluto rimanere con uno sguardo meravigliato nei confronti della realtà e chi si è invece inaridito e sentito truffato da una vita: il figlio non a caso incarna ciò che l’affabulazione nega, la mera cronaca del giornalismo. Il rapporto con la realtà, intrinseco a tutto il cinema, è la materia viva di questa educazione alla creatività che non è solo un elogio all’evasione pura, ma una grossa lezione morale di sguardo. Burton parla di sé, è ovvio, crea un ritmo perfetto tra i (presunti) flash-back della vita del vecchio padre (interpretato alla grande sia da Ewan MacGregor che Albert Finney) e i ritorni alla quotidianità del suo tumore, c’ è tutto il suo immaginario nelle vicende dell’impresario circense licantropo, nel gigante buono, nelle cantanti coreane siamesi, nel ricreare un (inquietante) quadretto di un tipico quartiere della middle-class americana degli anni cinquanta e così via. L’ imprendibile pesce enorme che non si fa catturare se non da un anello di matrimonio (perché è la reincarnazione di un ladro) è la metafora di chi guizza con leggiadria tra le trappole della falsità e dell’impostura, perché possiede il segreto d’immaginare un mondo dove è possibile vedere la propria fine nell’occhio di vetro di una vecchia strega. L’orrido è sempre presente, ma è più sottile che in altri suoi film, pulsa nascosto sotto le pieghe di una vicenda (tratta dal romanzo di Daniel Wallace) che nel film è raccontata dal figlio del protagonista, ma “con le parole di chi gliel’ ha raccontata”: l’onestà prima di tutto, anzi soprattutto nel caso in cui si parli di storie incredibili come queste. Come dire, per saper inventare davvero vicende meravigliose (e non raggiri in malafede) la realtà non bisogna fuggirla, ma conoscerla meglio degli altri.

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mercoledì 9 marzo 2005

Presentazione "Mystic river"

MYSTIC RIVER

(USA, 2003)
Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Brian Helgeland

Cast: Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon, Laura Linney

Raramente ci capita di vedere dei film capaci di trascendere gli aspetti privati e intimi dei vari protagonisti del racconto per giungere a un discorso più ampio, in grado di ergersi a paradigma di una società intera, o almeno di una parte di questa. Oggetto e soggetto del film il dolore, di due uomini in particolare; uno che ha perso la figlia diciannovenne, l’altro seviziato quand’era bambino. All’interno di un pregevole intreccio giallo, le vite e le psicologie di questi due uomini feriti e dei loro famigliari si svelano poco a poco, sino al tragico e inatteso finale. Vero momento chiave del film resta però l’epilogo, ambientato durante la parata del 4 luglio (la festa nazionale statunitense), dove l’equilibrio narrativo e l’ordine sociale vengono ristabiliti, le coscienze ripulite e le vittime dimenticate. Tutto acquista un senso nelle parole e nei gesti della moglie di Jimmy (Sean Penn nel film), gelida e cruda spiegazione dello stato di cose presenti. Ci torna alla mente, per analogia, il film di Nanni Moretti “La stanza del figlio”. In quel caso, il dolore di una famiglia e la sua elaborazione del lutto, restavano chiusi nel loro guscio; non potevano cioè che riguardare altri che parenti e amici. Al contrario, nel film di Clint Eastwood, tutti ci sentiamo toccati e tutti in fondo capiamo quel dolore; è la consapevolezza – più o meno conscia – di essere al capezzale di un modello di vita profondamente malato.

Questa, a nostro parere, la differenza fra “Mystic River” e “La stanza del figlio”; questa la differenza fra il grande e il piccolo cinema.

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mercoledì 2 marzo 2005

Presentazione "Notre musique"

NOTRE MUSIQUE

(Jean-Luc Godard, 2004)

Godard ha 75 anni. Il suo ultimo film, “Notre Musique”, è stato presentato a Cannes lo scorso anno (2004), l’anno della vittoria di Fahrenheit 9/11. In Italia sono 15 anni che un suo film non viene distribuito in sala (da “Nouvelle Vague”, del 1990, con Alain Delon e Domiziana Giordano); chi voleva vedere i suoi nuovi film doveva necessariamente recarsi ai festival dove venivano proiettati o recuperarli in cassetta (o dvd) sul mercato estero. A meno di sorprese, non sarà dunque possibile vedere in Italia “Notre Musique” al cinema.

“Notre Musique” è diviso in tre parti: 1° regno, l’inferno (la guerra); 2° regno, il purgatorio (la ricostruzione); 3° regno, il paradiso (uno spazio incontaminato e recintato, sorvegliato dai marines). La seconda parte, ¾ di film, è ambientata in Bosnia, durante lo svolgimento di una serie di incontri con personalità del mondo letterario. C’è un ebreo di Parigi che racconta la storia della sua famiglia; c’è un poeta palestinese che parla del suo popolo; c’è il ponte di Mostar in ricostruzione; c’è Godard che tiene una lezione di cinema. Questo, in sintesi, il contenuto del film.

C’è un abisso che separa Godard da, per esempio, Michael Moore; e questo abisso non è altro che la memoria; la Storia, potremmo dire. Oggi preferiamo consolarci con “Fahrenheit 9/11”, con “Schindler’s List”, o con “I cento passi”, piuttosto che ricostruire il nostro immaginario con i film di Godard, di Straub/Huillet e di pochi altri.

La musica di Schoenberg non è uguale alla musica dei Beatles; la scrittura di Baudelaire non è uguale a quella di Baricco; Orson Welles non è uguale a Sam Raimi. In fondo, i film di Godard, e di tutti coloro che resistono, ci ricordano che esistono ancora delle differenze, e che il fare delle scelte si paga. Nel caso di Godard egli è di volta in volta considerato snob, troppo intellettuale, noioso, pesante, blasfemo, provocatore ecc., e intanto i suoi film non escono al cinema e non interessano praticamente nessuno. Estendendo il discorso, chi resiste è considerato di volta in volta violento, filoterrorista, terrorista, criminale, assassino, delinquente, teppista ecc. Solo la memoria, la Storia, ci possono venire in soccorso, ci possono offrire un sostegno e guidarci nei percorsi, problematizzare le situazioni. Ecco perché non daremo mai un film di Benigni e invece ne daremo di Clint Eastwood, o perché non daremo mai un film di Greenaway e invece ne daremo di Ciprì e Maresco. Ecco perché daremo “Milano calibro 9” e non daremo mai “W la foca”.

La storia, la memoria, Godard, il cinema: noi stiamo da quella parte, per dire anche noi, coi nostri mezzi, che “La vita è bella” non è “Vogliamo vivere!”.

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mercoledì 14 aprile 2004

Presentazione "I racconti della luna pallida d'agosto"

UGETSU MONOGATARI di Kenji Mizoguchi

(I racconti della luna pallida d’agosto)

Giappone, 1953

Produzione: Daiei (Kyoto). Produttore: Masaichi Nagata. Regia: Kenji Mizoguchi. Sceneggiatura: Yoshikata Yoda e Matsutaro Kawaguchi, da due racconti di Akinari Ueda estratti da “Ugetsu monogatari” (“Racconti di pioggia e di luna”): “Casa fra gli sterpi” e “La passione del serpente”; e “Décoré” e “Il letto 29” di Guy de Maupassant. Fotografia: Kazuo Miyagawa. Luci: Kenichi Okamoto. Montaggio: Mitsuzo Miyata. Scenografia: Kisaku Ito. Costumi: Yoshimi Shima. Musica: Fumio Hayasaka e Ichiro Saito. Musica tradizionale: Tamekichi mochizuki e il suo insieme. Biwa: Umehara. Suono: Iwao Otani. Assistente: Tokuzo Tanaka. Consigliere per i dialoghi: Isamu Yoshii. Consigliere per il vasellame: Zengoro Eiraku. Coreografia: Kinshich Kodera. Consigliere per i costumi e gli usi dell’epoca: Kusune Kainosho. Interpreti: Masayuki Mori (Genjuro), Kinuyo Tanaka (Miyagi), Sakae Ozawa (Tobei), Mitsuko Mito (O-Hama), Machiko Kyo (la principessa Wakasa), Kikue Mori (Ukon, la governante), Ryosuke Kagawa (il capo del villaggio), Kichijiro Ueda (mercante d’abiti), Sugisaku Aoyama (il vecchio prete), Nanbu Syozo (il prete shinto), Ramon Mitsusaburo (il capo delle truppe Niwa), Ichisaburo Sawamura (Genichi, il figlio di Genjuro e Miyagi).

Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 1953

Arte e vita

La vera condizione dell’uomo è di pensare con le proprie mani […] Il pericolo non è dei nostri utensili, ma nella debolezza delle nostre mani

Jean-Luc Godard, Historie(s) du cinéma

Ugetsu monogatari stabilisce un legame profondo tra il regista e la sua opera. Mizoguchi porta sullo schermo la storia di un uomo che, volendosi artista, vive la sua creazione come una trasgressione nei confronti del quotidiano. Genjuro rifiuta la banalità della vita che gli è toccata a sorte, per conoscere le bellezze e i pericoli della gloria che tanto lo attirano non permettendogli di apprezzare ciò che gli è stato donato. Tuttavia, in un mondo dove tutto è tentazione, la creazione si dimostra l’unica tentazione salvatrice, la sola che sia nobile; inoltre il fatto di essere artista, alla fine converte la sua sete di successo e denaro in ricerca della bellezza e della morale. Per essenza l’artista è un essere impuro che diviene il più puro di tutti, grazie a un percorso esistenziale che gli permette di portare a compimento l’intelligenza che è in suo possesso.

Qui il conflitto tra realtà e bellezza è presentato in modo esplicito dal regista, il quale si propone di descrivere il fatale processo dell’esistenza e insieme della creazione artistica. Mizoguchi ci mostra, attraverso Genjuro, l’uomo di fronte alla vita che deve scegliere tra realtà e apparenza e allo stesso tempo l’artista di fronte alla sua arte, in preda alla tentazione di preferire la bellezza pura ma menzognera, piuttosto che la bellezza della verità e la verità della bellezza. La vita e l’arte sono qui intimamene legate poiché non sono che la stessa e unica esperienza, una esteriore, l’altra interiore, una oggettiva, l’altra soggettiva.

Questo film esce pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e inoltre il regista sceglie di ambientare le vicende in uno spazio e in un tempo anch’essi devastati dalle lotte civili. La dieresi interna e il contesto socio-politico in cui il film è inserito suggeriscono la possibilità che il cineasta si sia proposto di riflettere non solo sulla relazione tra arte e vita in senso generale, ma più precisamente sul ruolo dell’artista durante la guerra. Ci si interroga allora sul senso della creazione artistica in un momento in cui all’uomo è richiesta invece un’azione nel concreto. Mizoguchi non propone un connubio tra politica e arte e nemmeno suggerisce l’urgenza di un’arte sociale o militante. Il regista dimostra, nel suo stesso modo di pensare e fare cinema, che il problema è nell’atteggiamento dell’artista, il quale deve consegnare la sua coscienza a chi fruisce. Il discorso di Mizoguchi si costituisce dunque a partire dal senso di responsabilità che, precedentemente assunto dal creatore, deve poi trasferirsi necessariamente allo spettatore. Questo non può permettersi di rimanere indifferente alla sfida che l’opera gli propone, ma deve comprendere che essa lo riguarda e lo coinvolge in prima persona. L’artista non cadere nella tentazione di trovare rifugio e consolazione nel mondo dell’arte. Il cineasta condanna il ripiegamento egoistico nella ricerca di una bellezza fine a se stessa e mostra invece la necessità di un’arte in cui la manifestazione di tale bellezza abbia un effetto concreto e diretto sulla realtà

Bellezza e terrore

Può anche darsi che soltanto l’orrore, sia pur colto nella finzione,

mi abbia permesso di sfuggire al sentimento vuoto della menzogna

George Bataille, L’impossibile

La tragicità del personaggio di Wakasa risiede nella sua bellezza affascinante e ripugnante insieme. Bellezza che annienta, terrore delizioso e per Genjuro letale, poiché lo distoglie dal senso del tempo e dal dovere della memoria; ideale assoluto a cui tende l’artista e insieme pericolo per l’uomo che alla sua vista rimuove la presenza del reale.

La principessa è il luogo dove eros e thanatos possono convivere, è il tempo in cui essi dividono il medesimo spazio, quello della bellezza che innamora l’uomo tanto da distruggerlo. “L’inutile beauté”, di cui scrive Adorno, condanna alla sventura e costringe alla scelta tra destini ugualmente fatali queste dee terrene perseguitate dall’istinto irrefrenabile a distruggere se stesse e i rapporti umani in cui sono coinvolte. Fatal beauté – diceva Godard – come l’istante fatale: ciò che avviene davanti al nostro sguardo e tuttavia lo distrae. Istante della bellezza e bellezza dell’istante che fa passare il tempo su di noi manifestando il nostro essere-per-la morte e al contempo ci allontana dal pensiero della morte.

La principessa è una chimera che scompare nello stesso momento in cui non può più abitare la mente di Genjuro. Essa non ha vita di per sé; non essendo altro che apparenza fisica, è solamente superficie ed è deperibile. La sua immagine spettrale svanisce al contatto con la verità delle cose, poiché l’opera che accede solamente alla bellezza e non al reale, è destinata a perire come chi l’ha creata. “Sempre l’istante fatale verrà per distrarci”, scriveva Queneau, distrarci dal pensiero della morte e anche strapparci dalla vita per trascinarci nel nulla.

Quell’istante fatale che per Genjuro significava il passaggio definitivo alla morte viene però a coincidere con il momento della nascita di un nuovo individuo. Nello stesso luogo – la bellezza di Wakasa – in cui il protagonista si libera alla sua dimensione onirica e si distacca completamente dal mondo oggettivo, si sveglia e ritrova la realtà vera. Morte e vita appartengono allo stesso spazio e allo stesso tempo, quell’istante fatale in cui l’uomo sceglie l’oblio o la memoria, il sogno o la realtà, l’indifferenza o la responsabilità.

La morte di Miyagi

La morte, così difficile, così facile

Paul Éluard

Vi sono alcuni aspetti della realtà che Mizoguchi lascia volontariamente fuori campo, rendendo esplicita la sua profonda preoccupazione sulla possibilità di mostrare o invece negare alla vista, tutto ciò che in qualche modo potrebbe accecare lo sguardo dello spettatore. Il suo rifiuto non deriva però dal desiderio di fuggire e evadere dalla realtà, ma dimostra il tentativo di non spingere mai la sua regia più in là dell’esteticamente accettabile. Il suo sguardo si interroga costantemente sul modo in cui si deve guardare la realtà e sistematicamente nega allo spettatore, ma ovviamente non alla sua comprensione, ciò che la sua vista non potrebbe sopportare. La responsabilità di mostrare non conduce a una ripresa indiscriminata, anzi spesso si traduce nel dovere di occultare, nella necessità di fermare o posare lo sguardo altrove. In questo senso produce una dialettica costante tra visibile, infravisibile e invisibile che deriva non da un pudore virtuoso, bensì da un’etica della visione ben precisa. In questi momenti, la macchina da presa disegna lo spazio senza perforarlo, gira intorno all’atto, non filma l’azione bensì l’idea dell’azione; posiziona la violenza e l’osceno nel tempo, non nello spazio cinematografico, non dà a vedere né ad ammirare, ma lavora sul tempo e sulla durata in modo da mostrare l’idea dell’evento e l’intensità dell’emozione vissuta.

Mizoguchi scivola davanti alla morte di Miyagi, come per volerla schivare; non offre lo spettacolo, ma la rappresentazione di una morte registrata e fissata con uno sguardo che preferirebbe non aver visto. Il regista guarda facendo finta di non vedere nulla e mostra il fatto nel prodursi come fatto, cioè ineluttabilmente e di traverso. Mizoguchi si tiene quasi in disparte, per timore e per tremore, senza mai avvicinarsi troppo alla scena; ha visibilmente paura della guerra e desidera fuggirne l’orrore e l’assurdità. Non dall’indifferenza quindi, ma da una nausea profonda deriva quella che Daney definiva una panoramica inebetita, movimento di uno sguardo claudicante che riprende a fatica ciò che non avrebbe mai voluto dover mostrare. La linea disegnata da Mizoguchi si muove lateralmente, scorrendo sull’azione come se la macchina da presa passasse per caso davanti ai personaggi. Il contenuto dell’immagine esige la coscienza della forma; l’orrore della guerra e la morte improvvisa della donna chiedono di tracciare la scena e non di penetrare lo spazio.

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