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venerdì 23 novembre 2007

"LA RAGAZZA DEL LAGO" di Andrea Molaioli, 2007

La ragazzo del lago è un film sopravvalutato, ma ci teniamo a dire che questo giudizio non si basa su facili e ideologici preconcetti. In fondo siamo indulgenti, specie con gli esordienti, e perciò siamo riusciti a perdonare al regista la serie di inquadrature-spot della prima parte del film (vieni anche tu a visitare il Friuli Venezia-Giulia...), abbiamo accettato il fatto che la sceneggiatura fosse firmata dall'infaticabile Sandro Petraglia (chi si ricorda di Auranche e Bost?), siamo riusciti a comprendere gli inevitabili compromessi necessari a fare sì che un'opera prima venisse presentata al festival di Venezia e distribuita nelle sale di tutta Italia, ma terminata la proiezione siamo comunque rimasti delusi, e nessuno può volercene se siamo andati a vedere il film aspettandoci dal regista per prima cosa un'idea di cinema, o quantomeno di messinscena.
Li abbiamo visti in centinaia di film quei lenti e avvolgenti movimenti di macchina sul personaggio solo e seduto in cucina (o sdraiato, come in La ragazza del lago), ma nessuno, nemmeno Bertolucci, ci ha mai spiegato perchè la cinepresa non resta ferma. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di stile, o di ispirazione, ma queste sono nella maggioranza dei casi solo parole compiaciute, frasi fatte, e null'altro.
A questo punto potrebbe non sembrare ma in verità non è che qui ci interessi demolire il film di Andrea Molaioli in particolare, che per altro si fa guardare, complice la trama e la solita ottima interpretazione di Toni Servillo. Ci interessa piuttosto sottolineare come, riprendendo l'esempio del movimento di macchina di cui sopra, sia divenuta una costante il fatto che il vertice massimo cui riescono a giungere i nomi nuovi del cinema italiano altro non sia che la debole copia di un clichè. Per cui nulla in questo film riesce a essere memorabile, nulla riesce a sorprenderci, nulla è mai davvero interessante. Il cinema di Molaioli e di tanti altri cineasti emergenti più che una "finestra sul mondo" appare come un riflesso sulla finestra di casa: tanti credono che ciò che questa incornicia sia il mondo esterno, pochi si accorgono che il riflesso proviene dal televisore in salotto.


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mercoledì 14 novembre 2007

"LA GIUSTA DISTANZA" di Carlo Mazzacurati, 2007

A volte si parla bene di certi film italiani solo perché superano il livello di indecenza media a cui siamo ormai abituati da tempo, per lo meno rispetto ai film che vengono distribuiti al cinema. Spesso poi le lodi vengono accentuate se il film in oggetto viene realizzato da cineasti progressisti, sensibili alle problematiche sociali e politicamente riconducibili a un’area non apertamente reazionaria . E’ il caso per esempio dei film di Carlo Mazzacurati.
Per la sua ultima pellicola La giusta distanza in molti si sono ritrovati concordi nel salutare il film come l’opera di un regista ritrovato, come una piacevole sorpresa rispetto alle ultime fatiche del cineasta veneto. Probabilmente tutto questo è vero, ma non sufficiente comunque a fare di La giusta distanza un film memorabile. Quasi tutto quello che viene mostrato nel film è infatti poco più che una corretta illustrazione di una sceneggiatura molto attentamente elaborata e costruita. Quasi tutto appare pianificato in ogni dettaglio, col risultato che ogni inquadratura finisce con l’esistere solo per se stessa, senza altro rapporto con le altre inquadrature se non quello direttamente funzionale alla narrazione. Il microcosmo descritto appare blindato dalle esigenze della finzione filmica e dalla necessità di trovare le forme più delicate per esplicitare il giudizio apparentemente neutro del regista su quanto mostrato, e si ha la sensazione durante la visione del film che la realtà, fosse anche quella dei sentimenti recitati degli attori, non farà mai irruzione sulla pellicola, non incrinerà mai il disegno precostituito in sceneggiatura, non lascerà cioè tracce dalle quali ripartire per costruire un discorso altro. Ancora una volta, dunque, un film dai toni pacati ma che vorrebbe, attraverso il contrasto con la durezza degli eventi mostrati, scuotere la coscienza dello spettatore, che invece non viene mai graffiata, smossa, sollecitata. A meno che lo spettatore non sia simile per temperamento al regista o si riconosca nel giovane protagonista del film, l’aspirante giornalista che alla fine abbandona il piccolo paesino del delitto, solo, ma a suo modo fiero che giustizia sia stata fatta, e a suo modo fiero di avercela fatta.


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mercoledì 7 novembre 2007

"IN QUESTO MONDO LIBERO" di Ken Loach, 2007

Negli ultimi anni ci eravamo un po’ stufati dei film di Ken Loach, il regista “compagno” autore di film di denuncia sociale. Ci eravamo stufati perché non ci è mai interessato andare al cinema per trovare conforto alle nostre sofferenze, per scoprire che c’è ancora qualcuno che parla di quello che non funziona nella società occidentale, per identificarci con l’operaio o l’alcolizzato di turno. Non ci è mai interessato andare al cinema per riconoscerci sfruttati, ma consolati dal fatto che qualcuno lo racconta, e poi tornare al lavoro (quando lo si ha) aspettando il prossimo film-programma tv-romanzo-partito – di sinistra – a cui delegare le nostre frustrazioni.
Sotto questo punto di vista gli ultimi due film di Ken Loach, invece, ci hanno piacevolmente sorpreso.
In Il vento che accarezza l’erba e In questo mondo libero l'autore fa propria la frase, per dirla alla Godard, di Ici et ailleurs: “Troppo facile e troppo semplice dire che i ricchi hanno torto e i poveri ragione”.
E così se in In questo mondo libero la protagonista è ancora e sempre un personaggio alla Ken Loach (stavolta una ragazza sui 30 anni, figlia di operai, separata e con figlio a carico, disoccupata e in cerca di riscatto), ciò che nel film emerge non è la semplice denuncia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quanto lo svelarsi dei meccanismi dentri ai quali si resta imprigionati nel momento in cui il legittimo desiderio di vivere una vita dignitosa si esprime attraverso la ricerca dell’affermazione individuale. Il finale amaro sgombra il campo dalla pia illusione che sia sufficiente una qualsiasi riforma del welfare per risolvere almeno in parte i problemi del lavoro e della società in generale; soprattutto dall’illusione di essere migliori di chi ci sfrutta solo perché siamo sfruttati.
Siamo ancora e sempre lontani dalla bellezza stilistica di un film come Kes (l'opera prima di Ken Loach, tuttora insuperata) ma non si può non riconoscere al regista inglese di essersi finalmente allontanato dai propri clichè più stucchevoli, e di avere maturato una visione della società contemporanea più disincantata, e appunto per questo meno conciliante. Non in linea perciò con quanto oggi viene definito "di sinistra".


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