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mercoledì 19 giugno 2002

Presentazione "Sicilia!"

JEAN MARIE STRAUB

DANIÉLE HUILLET

SICILIA!

(Italia/Francia 1999, b/n, 66')

La semplicità resta, nell'era degli accumuli, incomprensibile. In un mondo rovesciato si crede facile il difficile e viceversa. Straub-Huillet rivoltano-rivoluzionano il mondo e le persone restituendo a essi la posizione e il ruolo naturali. Costantemente il loro cinema è frainteso nel peggiore dei modi e questo film ci testimonia per l'ennesima volta che la società è costruita anche per questo. Chi riesce a speculare sui dotti e molteplici riferimenti letterari (Elio Vittorini che tornerà in Operai, contadini e forse nei prossimi film) -e non- che Sicilia! potrebbe stimolare, come per tutti i loro film, riesce solamente a godere di se stesso, delle quattro pagine che ha letto e dei milioni di film che ha visto, ricordando di aver consumato più industria culturale del proprio vicino di banco, ritornando meccanismo preparato e indispensabile alla discesa inarrestabile della società dell'accumulo. Tra i libri e le figurine non c'è più differenza. Questi occhi ancora credono di avere di fronte un cinema intellettuale, snob, letterario, che solo chi nuota nell'industria culturale può comprendere e valutare, con un certo fastidio e disprezzo, tale senza appello. Sicilia!, come tutto il cinema di Straub-Huillet, smaschera chi gode del proprio essere e del proprio sapere, condanna le riflessioni complesse di chi si sente autorizzato a sentirsi consapevole spettatore, pagante e senza colpe, di un mondo che rotola sempre più velocemente. Questo è un cinema primitivo, di un'imbarazzante semplicità, rivoluzionario. Un cinema per analfabeti, ciechi, ignoranti, scapestrati, che ci mostra quanto e come la 'cultura' è vincolata dalla sua rinnovata natura capitalista che rende impossibile la comunicazione, e le parole, per il ruolo consolidato di impartire ordini di consumo e di pensiero. Sicilia! è un arma sempre carica e puntata con estrema precisione contro tutto questo.

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mercoledì 12 giugno 2002

Presentazione "Furore"

FURORE (The Grapes of Wrath)

John Ford

USA 1940, b/n, 129’

Adattamento dell’omonimo romanzo di John Steinbeck. Sceneggiatura di Nunnally Johnson. Fotografia di Gregg Toland. Musica di Alfred Newman. Montaggio di Robert Simpson. Suono di George Leverett e Roger Heman. Produzione di Darryl F. Zanuck.

Con Henry Fonda, John Carradine, Jane Darwell, Russel Simpson, John Qualen, Ward Bond, Grant Mitchell, Charlie Grapewin, Doris Bowdon, Frank Sully.

Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Pratiche Editrice, Parma 1990

- P.T. Che cosa ti attratto in Furore?

- J.F. Mi piaceva, tutto qua. Avevo letto il libro – era una bella storia – e Darryl Zanuck aveva una buona sceneggiatura. Tutta la cosa mi interessava: parlava di gente semplice, ed era una storia analoga alla carestia in Irlanda, quando la gente veniva cacciata dalle terre e lasciata vagabondare per le strade a morire di fame. Questa storia poteva avere a che fare con tutto ciò – parte della mia tradizione irlandese – e mi piaceva l’idea di questa famiglia che se ne va per il mondo a cercare una vita migliore. Era una storia che arrivava al momento giusto.[…] Gregg Toland fece uno splendido lavoro con la fotografia – non c’era assolutamente nulla di nulla da fotografare là, neanche una cosa bella – solo pura e semplice fotografia.

Stati Uniti nella Grande Depressione. Il mito della frontiera è finito e il sogno agricolo è soppiantato dall’industrializzazione sfrenata e dall’urbanismo.

Ford sostiene la propria fede nei valori della tradizione, la terra, una vita semplice, ma soprattutto denuncia la corruzione della classe politica, il cinismo degli industriali e le ingiustizie che la gente deve subire a causa di una politica agraria disastrosa.

La famiglia di Tom è costretta a trasferirsi ad Ovest, in California, un tempo la terra promessa di chi voleva far fortuna, oggi distesa di campi governativi costruiti per accogliere la massa di profughi che hanno perduto la loro terra, acquistata da azionisti privati senza scrupoli.

Tom, appena uscito di prigione, segue la sua famiglia, ma non riesce a rimanere indifferente alle sofferenze che loro e altri come loro devono subire per non morire di fame. Disorientato e confuso, Tom partecipa quasi per caso agli incontri che un gruppo di lavoranti organizza per mettere in piedi scioperi e rivolte. A causa dei suoi precedenti, quando la polizia scopre le trame del gruppo, è costretto a fuggire e a lasciare la sua famiglia.

Le parole della madre di Joad alla fine del film sono più eloquenti di qualsiasi commento. La donna dice al figlio ricercato per aver tentato di ribellarsi: “Ci saremo sempre. La gente come noi non muore. Nessuno può spazzarci via”.

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Manifesto quinta rassegna

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mercoledì 5 giugno 2002

Presentazioni "La via lattea"

LA VIA LATTEA

(La Voie Lactée)

(Francia – Italia 1969)



Regia : Luis Buñuel ; Sceneggiatura : Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; Fotografia: Christian Matras; Montaggio: Louisette Hautecœur; Produttore: Serge Silberman.

Interpreti: Paul Frankeur (Pierre), Laurent Terzieff (Jean), Alain Cuny, Michel Piccoli, Pierre Clementi, Delphine Seyrig

Uno dei luoghi comuni da sfatare sul cinema di Luis Buñuel è relativo alle componenti irrazionali e oniriche dei suoi film, divenute la giustificazione storica per tutti i senza talento che pensano di fare del cinema o dell’arte mettendo un titolo sotto al nulla appeso al muro o in corso di proiezione. Niente in Buñuel è lasciato al caso, e niente è frutto di visioni e ispirazioni inafferrabili. Al contrario, tutto tende a risultare il più concreto e materiale possibile. È sufficiente analizzare uno qualunque dei film di Buñuel per rendersi immediatamente conto dell’ estremo rigore con cui questi vengono immaginati, scritti e girati. L’idea vagamente metafisica diventata prepotentemente alla moda fra i mediocri e innocui (quando non dannosi) “artisti” dell’epoca postmoderna, per cui una macchia su un muro, una ripresa obliqua, una frase sgrammaticata realizzate sull’onda di uno slancio “creativo” dall’ultimo degli ignoranti e arroganti figlio di papà che si rivendica pittore, regista, scrittore è un’opera d’arte, non vale certamente per uno come Buñuel. Tutti i suoi film, da Un Chien andalou a Quell’oscuro oggetto del desiderio, sono opere costruite da una mente razionale, limpida e acuta, capace di smascherare attraverso le possibilità offerte dal mezzo cinematografico la falsa coscienza, il moralismo, la barbarie della classe borghese. Senza dubbio Buñuel possedeva anche molto talento e molta intelligenza, ma ciò, di per sè, non sarebbe sufficiente a fare di lui un artista del cinema. Lo scarto, come sempre, si trova nella visione del mondo e nel modo con cui ci si rapporta ad esso. La via lattea, un film che affronta direttamente questioni teologiche (dall’eucarestia alla trinità), offre una visione del mondo in cui si oppongono posizioni dogmatiche e antidogmatiche, di cui a farne le spese sono come sempre gli innocenti. Se l’indeterminatezza poetica è quell’elemento irriducibile che svela una verità particolare e parziale e la mostra non come dato assoluto, ma come tensione verso di essa, La via lattea è forse il più teorico ma anche il più profondo dei film di Buñuel, in quanto - nella sua apparentemente delirante struttura narrativa – mostra con esemplare chiarezza corsi e ricorsi storici dei vari aut-aut sintetizzabili nella formula o con me o contro di me. Quanti impiegati dell’arte hanno almeno la consapevolezza di avere scelto di stare dalla parte del padrone, dunque di avere perso la loro misera battaglia in partenza?

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«L’idea di un film sulle eresie della religione cristiana risaliva alla lettura, poco dopo il mio arrivo in Messico, della summa di Menéndez Pelayo Gli eterodossi spagnoli. Questa lettura m’insegnò molte cose che non sapevo, in particolare sui martiri eretici, convinti della loro verità quanto i cristiani, se non di più. Nel comportamento dell’eretico è proprio questa convinzione di possedere la verità, nonché la stranezza di certe invenzioni che mi ha sempre affascinato. In seguito avrei trovato una frase in cui Breton, malgrado la sua avversione per la religione, ammetteva che il surrealismo riconosce di avere “certi punti di contatto” con gli eretici.

Tutto quello che si vede e si sente nel film si basa su documenti autentici. Il cadavere dell’arcivescovo riesumato e bruciato pubblicamente (perché dopo la morte erano stati trovati, scritti di suo pugno, testi viziati dall’eresia) fu nella realtà quello di un arcivescovo di Toledo che si chiamava Carranza. Iniziammo con un lungo lavoro di ricerca al centro del quale troneggiava il Dizionario delle eresie dell’abate Pluquet, poi scrivemmo la prima stesura nell’autunno del 1967, al parador di Cazorla in Spagna, nella provincia di Jaén. Eravamo soli, Carriére e io, fra le montagne dell’Andalusia. La strada si fermava all’albergo. Dei cacciatori partivano all’alba per rientrare solo a notte fatta, portando ogni tanto il dolce cadavere di uno stambecco. Per tutto il giorno non parlavamo che della Trinità, della duplice natura di Cristo, dei misteri della Vergine Maria. Sibelrman accettò il progetto, cosa per noi incredibile, e terminammo lo script a San José Purua nel febbraio-marzo 1968. Messo per un attimo in pericolo dalle barricate del maggio’68, il film venne girato a Parigi e nella regione circostante durante l’estate. Paul Frankeur e Laurent terzieff incarnarono i due pellegrini che vanno a piedi, ai nostri giorni, a Santiago de Compostela, e che lungo la strada, liberati dal tempo e dallo spazio, incontrano tutta una serie di personaggi che illustrano le nostre eresie principali. La via lattea, di cui a quanto sembra facciamo parte, si chiamava una volta “il sentiero di San Giacomo” (cioè Santiago) perché indicava la direzione della Spagna ai pellegrini che arrivavano da tutta l’Europa del Nord. Di qui il titolo. In quel film, dove ritrovavo Pierre Clementi, Julien Bertheau, Claudio Brook e il fedele Michel Piccoli, lavorai per la prima volta con Delphine Seyrig, attrice notevolissima, che a New York durante la guerra avevo fatto saltare sulle ginocchia. Per la seconda –e ultima- volta mettevo in scena Cristo stesso, impersonato da Bernard Verley. Ho voluto mostrarlo come un uomo normale, che ride e corre, che sbaglia strada, che si dispone perfino a farsi la barba, molto lontano dall’iconografia tradizionale.

E dato che parliamo di Cristo, mi sembra che nell’evoluzione contemporanea della religione Cristo si sia impadronito di un posto privilegiato nei confronti delle altre due persone della Santissima Trinità. Si parla solo di lui. Dio Padre esiste ancora, d’accordo, ma molto vago, molto lontano. Quanto al povero Spirito Santo, nessuno gli bada e adesso fa l’accattone.

Malgrado la difficoltà e la stranezza del soggetto, il film, grazie alla stampa e agli sforzi di Silberman, senza dubbio il miglior promotore cinematografico che io abbia mai conosciuto, ottenne un successo più che onorevole. Come Nazarin, suscitò reazioni molto contrastanti. Carlos Fuentes lo considerava un film di lotta, antireligioso, mentre Julio Coltàzar arrivava a dire che gli sembrava pagato dal Vaticano.

Questi processi alle intenzioni mi lasciano sempre più indifferente. Per me La via lattea non era pro questo né contro quello. Il film, oltre alle situazioni e alle dispute dottrinarie autentiche che mostrava, mi sembrava innanzitutto una scorribanda nel fanatismo in cui ciascuno si aggrappava con forza e intransigenza alla propria porzione di verità, pronto a uccidere o morire per lei. Così mi sembrava che la via percorsa dai due pellegrini si potesse applicare a qualsiasi ideologia politica e perfino artistica». (Luis Bunuel)


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Manifesto "La via lattea"

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