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mercoledì 5 gennaio 2011

Migliori film del 2010 (The best movies of 2010)

In attesa che un dì riprendano le proiezioni del cineforum (chissà), una volta tanto ho deciso di fare una cosa non consueta per il Kinoglaz: un elenco dei migliori film usciti al cinema in Italia nell'anno appena trascorso, il 2010.
Le classifiche lasciano il tempo che trovano, ma molto dipende anche da chi le fa. Quelle che uscivano sui Cahiers du Cinéma, per esempio, non le ho mai trovate inutili. Così come leggere gli elenchi dei film preferiti fatti da registi o critici che ritengo importanti mi ha sempre emozionato e incuriosito. Questa volta ci prova il sottoscritto.
Prima di cominciare, una precisazione. Tra i film che mi sono perso, figurano alcuni titoli che, conoscendomi, penso potrebbero modificare l'attuale top ten. Mi riferisco in particolare a Noi credevamo di Mario Martone, La pecora nera di Ascanio Celestini e Uomini di Dio di Xavier Beauvois. Se sarà il caso, in futuro aggiornerò la classifica.

Cosmo Vitelli



10. A single man di Tom Ford.

Elegante nello stile e nella confezione, abbastanza coraggioso per come affronta il tema del film (l'amore, e non solo omosessuale... ) merita la visione per l'ottima interpretazione di tutti gli attori, compreso ovviamente il notevole Colin Firth.





9. Il profeta di Jacques Audiard

Non è il capolavoro che ci dicono sia, ma resta un ottimo film di ambientazione carceraria, con risvolti sociali abbastanza marcati, e una tesi di fondo di cui quantomeno è possibile discutere.





8. Amabili resti di Peter Jackson

In una cittadina della Pennsylvania abita un serial killer che uccide le bambine. A raccontarci la storia, direttamente dall'aldilà, è una delle vittime dell'assassino, una ragazzina di 14 anni, che in realtà vive una realtà sospesa fra questo e l'altro mondo. Ecco, è il limbo immaginato da Jackson ciò che, penso, più interessava il regista. Per quanto mi riguarda, le sue immagini "inventate" sono più interessanti di quelle di Tim Burton o Kusturica. E questa storia è più conturbante di quelle di molti horror e fantasy contemporanei.





7. My Son, My Son, What Have Ye Done di Werner Herzog

Prodotto da David Lynch (e si vede assai... ), un film che non ti aspetti, imperfetto, ambizioso e straniante. Herzog forse a volte eccede con i rimandi alla tragedia classica, a volte con l'inverosimiglianza. Ma in alcuni momenti è capace di farci barcollare, creando sottili inquietudini. Come sempre in Herzog, la Natura lascia il segno.





6. Bright Star di Jane Campion

Un film in costume senza sfarzo, spoglio e freddo, sull'amore fra la giovane Fanny e il poeta romantico John Keats, morto a 25 anni di tubercolosi. Chi si aspettava il classico polpettone sentimentale probabilmente sarà rimasto deluso dal film della Campion, che invece ha optato per una recitazione naturalistica e una messinscena oserei dire materialista, capace di rimuovere l'alone di leggenda e maledettismo che avvolge la drammatica vicenda raccontata.






5. Shutter Island di Martin Scorsese

Ora che ha finalmente vinto il tanto agognato Oscar (nel 2006 con The Departed) Scorsese probabilmente si sente più libero di girare film senza l'ossessione di dover ogni volta competere per la statuetta. Shutter Island rimanda ai b-movies americani degli anni 50, quei piccoli grandi film che hanno fatto e tuttora fanno la gioia dei cinefili di ogni paese. Certo, qui c'è di Caprio e non Dana Andrews, ma lo spirito è quello dei noir di Fritz Lang o Otto Preminger. E allora Shutter Island probabilmente un giorno lo ricorderemo come oggi si ricordano L'alibi era perfetto, Il bandito senza nome o Un angelo è caduto.





4. La bocca del lupo di Pietro Marcello

Un documentario commovente e insolito, ambientato a Genova, sulla storia della relazione fra un uomo e un transessuale. Molto bello l'utilizzo dei filmati di repertorio della Genova e della Liguria del Novecento, e soprattutto il montaggio di tali filmati con il girato contemporaneo. Non penso di sbagliare se affermo che l'influenza di Godard su Pietro Marcello sia stata decisiva. Sicuramente maggiore di quella di Fassbinder, spesso citato come modello.






3. L'uomo nell'ombra di Roman Polanski

Un film come non se ne fanno più, testimone oggi insieme a pochissimi altri titoli di una classicità destinata a scomparire. Il percorso cinematografico di Polanski, da un certo punto di vista, è in realtà a ritroso (un pò come fu quello di Truffaut). Ma è altrettanto vero che con la vecchiaia (pensiamo all'eccellente Il pianista) Polanski ha conseguito un equilibrio stilistico degno dei suoi comunque inarrivabili maestri. La sequenza finale del passaggio del biglietto di mano in mano non è solo una scena "alla Hitchcock". Essa appare piuttosto come un traguardo raggiunto.






2. Lourdes di Jessica Hausner

Sebbene sia piaciuto sia ai cattolici che agli atei (vedi i premi ricevuti), Lourdes resta un film notevole. Il rigore della regia compensa il prevedibile sviluppo narrativo, e lo stile molto "est-europa" e "autoriale" per una volta risulta essere funzionale al racconto e non solo di maniera. Inoltre, la regista austriaca non mi pare una "furbetta" a cui piaccia giocare con i sentimenti e le idee dello spettatore (alla Von Trier o Aronofski, per intenderci).
Bellissima la "festa" finale, con una serie di canzoni italiane di successo internazionale, e fantastica la barzelletta che i preti si raccontano in albergo.

N.B. Per evitare di irritare chi non ha ancora visto Lourdes, ho scelto di non inserire il trailer del film. Troppe cose vi vengono svelate.



1. Pietro di Daniele Gaglianone

Forse non è il più bello dei film del 2010, ma sicuramente è il più necessario. Perchè non concede nulla, perchè è il più coraggioroso, perchè è torinese, perchè non è perfetto, perchè Pietro Casella è un grande attore, perchè non piace agli alternativi, perchè è autogestito, perchè è marginale ma non gode di esserlo. Perchè spero non passino altri 7 anni prima di vedere un nuovo film di Daniele Gaglianone.



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mercoledì 9 aprile 2003

Presentazione "Gangs of New York"

GANGS OF NEW YORK

(USA 2002, col, 170’)

R. : Martin Scorses

s.: Jay Cocks

sc.: Jay Cocks, Steven Zailland, Kenneth Lonergan

f.: Michael Balhaus

m.: Thelma Schoonmaker

int.: Leonardo Di Caprio, Daniel Day Lewis, Cameron Diaz, Liam Neeson

Il cinema di Scorsese da sempre ci ha messo di fronte al rapporto tra l’autore, le sue opere, e le referenze critiche e passionali di determinati film e registi. Elemento che ha fondato con gli anni un pertinente, e per nulla nascosto, discorso contemporaneo sulla messa in scena della cinefilia che ci riporta immediatamente alle sue origini pratiche e teoriche, la «Nouvelle Vague». La presenza di Camille di Gorge Delerue in Casinò è solo uno degli elementi che inseriscono l’opera di Scorsese nelle le maglie di un complesso reticolato fatto di citazioni e rimandi, suggestioni e memorie, passioni e lucidità poetica, che attraversa una delle storie del cinema, la sua.

Gangs of New York pur continuando a esibire, con precisa consapevolezza, il ruolo di consumato spettatore con cui Scorsese è solito frequentare la pratica della regia, segna contemporaneamente la volontà di una ricerca antropologica autocritica, che mira senza presunzioni a riflettere sul proprio passato artistico seguendo un percorso in cui una forma sottile di metalinguaggio si rivolta su se stessa per divenire contemporaneamente oggetto di riflessione. La stratificazione del suo cinema, dallo spettacolo che non tradisce la stessa passionalità dello Scorsese spettatore alla cinefilia più ricercata, mantiene inalterati i tratti stilistici che ci hanno permesso di identificare e riconoscere l’autore fino ad oggi. Proprio la prima inquadratura del film ci dà la possibilità di vedere all’opera questa tendenza. L’uomo che si rade ci riporta in un istante ad uno dei primi cortometraggi dell’autore (The big shave, 1967) che inserisce le immagini che andremo a scorgere alle radici del cinema dell’autore stesso. Così un’opera in costume estranea ad una qualsivoglia età dell’innocenza si popola con i goodfellas delle gangs che dipingono uno scenario, uno sfondo antistorico e spettacolare che determina la principale essenza del film. Sapientemente Scorsese spreca senza nascondersi il plot melodrammatico costituito dalla vendetta di Amsterdam e dalla sua improbabile storia d’amore. Pochi i momenti concessi ai due e spesso assolutamente ridimensionati o ridicolizzati (come la comparsa di Bill avvolto dalla bandiera americana dopo la prima notte che la coppia passa insieme). Ciò che l’autore sostiene è infatti una dimensione strettamente cinematografica, la genesi preoccupante di un paese che non si può distinguere dallo spettacolo consumato e costruito dalla ‘passione’ scorsesiana. Il trucco, l’artificio e l’approssimazione del ricostruito si manifestano in ogni momento, come le strade finte che vogliono farci sentire la cartapesta e divengono a loro volta nuovi contenitori spettacolari di teatri (dall’elisabettiano al teatro di posa) e di battaglie carnevalesche. Un film fatto di sporcizia, di violenza, di ignoranza, che segna la consistenza dell’immigrato totale nordamericano, la costituzione con la forza della patria impossibile e dell’intolleranza. Inoltre c’è la New York dal basso di Scorsese ricostruita a cinecittà, in fondo la stessa autentica di Mean Streets e Goodfellas, che arriva fino alla nascita del cinema per potersi permettere le poche dissolvenza con cui il film si conclude, mostrandoci in un istante svanire il Novecento della metropoli statunitense che non ha cambiato di molto la sua costituzione. Opera incompresa, indigesta per l’oltreoceano e snobbata in Europa, Gangs of New York crescerà di importanza negli anni, fino a divenire pietra fondante di una imponente cinematografia nazionale abituata a vendicarsi dei capolavori generati al suo interno. L ’America nasce dalle strade come il cinema di Rossellini.

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