Presentazione "Big fish"
«BIG FISH» di T. Burton (2004)
Tim Burton si è ritagliato da tempo, all’interno dell’establishment holly-woodiano, un piccolo regno fatto soprattutto di atmosfere oscure, inquietanti, popolate da mostri borderline che galleggiano nel limbo tra “società civile” e un mondo “altro”, totalmente ricoperto dalla sua sfrenata fantasia (anzi, proprio dallo sconfinamento dei suoi personaggi tra i due mondi nascono alcuni dei suoi film più riusciti, come i due Batman, “Il mistero di Sleepy Hollow”, “Nightmare before Christmas” e, perché no, anche “Ed Wood”, folletto del cinema di serie z, personaggio assolutamente al confine tra “normalità” e follia). “Big fish” è la summa di tutte le storie di personaggi straordinari che ha narrato finora, rimanendo intatta in fondo la molla alla base dei suoi film, un personaggio fuori da ogni canone che interseca la mediocrità della vita dei “normali” (vedi sopra), non ci mostra più semplicemente le avventure di un solo freak, ma quest’ ultimo che le ricorda TUTTE. Come se Batman, ormai invecchiato, raccontasse tutte le sue imprese a una platea di stupefatti spettatori, invece che agire. Inventare, manipolare, impastare, narrare come un vecchio cantastorie, farcire la monotonia di un reale altrimenti privo d’interesse sono gli elementi basilari che Burton mette in gioco in questo film e che fanno di quest’ opera la più teorica e programmatica delle sue. Big Fish è un manifesto poetico/estetico e di sicuro il suo capolavoro.
Un padre, fermo a letto da una grave malattia (ottima idea di sceneggiatura, l’ immobilità come negazione dell’ azione, ma condizione prima per l’ evocazione ), rincontra il figlio dopo tre anni di silenzio reciproco, causato dal rifiuto del secondo di essere solo una parentesi all’ interno dei mirabolanti racconti che il primo ha intessuto nel corso degli anni sulla propria vita. Il nuovo incontro tra i due fa scattare e poi chiudere definitivamente il confronto (e lo scontro) tra chi è sempre voluto rimanere con uno sguardo meravigliato nei confronti della realtà e chi si è invece inaridito e sentito truffato da una vita: il figlio non a caso incarna ciò che l’affabulazione nega, la mera cronaca del giornalismo. Il rapporto con la realtà, intrinseco a tutto il cinema, è la materia viva di questa educazione alla creatività che non è solo un elogio all’evasione pura, ma una grossa lezione morale di sguardo. Burton parla di sé, è ovvio, crea un ritmo perfetto tra i (presunti) flash-back della vita del vecchio padre (interpretato alla grande sia da Ewan MacGregor che Albert Finney) e i ritorni alla quotidianità del suo tumore, c’ è tutto il suo immaginario nelle vicende dell’impresario circense licantropo, nel gigante buono, nelle cantanti coreane siamesi, nel ricreare un (inquietante) quadretto di un tipico quartiere della middle-class americana degli anni cinquanta e così via. L’ imprendibile pesce enorme che non si fa catturare se non da un anello di matrimonio (perché è la reincarnazione di un ladro) è la metafora di chi guizza con leggiadria tra le trappole della falsità e dell’impostura, perché possiede il segreto d’immaginare un mondo dove è possibile vedere la propria fine nell’occhio di vetro di una vecchia strega. L’orrido è sempre presente, ma è più sottile che in altri suoi film, pulsa nascosto sotto le pieghe di una vicenda (tratta dal romanzo di Daniel Wallace) che nel film è raccontata dal figlio del protagonista, ma “con le parole di chi gliel’ ha raccontata”: l’onestà prima di tutto, anzi soprattutto nel caso in cui si parli di storie incredibili come queste. Come dire, per saper inventare davvero vicende meravigliose (e non raggiri in malafede) la realtà non bisogna fuggirla, ma conoscerla meglio degli altri.
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