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mercoledì 29 agosto 2007

"VENERI ROSSE" di Allan Dwan, 1956

Degli oltre 250 noir americani usciti nel periodo che va dal 1940 al 1959, Veneri rosse (Slightly scarlet) viene ricordato per essere uno dei pochi girato a colori (gli altri sono Femmina folle, Niagara e Il dominatore di Chicago). A dirigerlo è un veterano di Hollywood, Allan Dwan, canadese di origine, il quale cominciò la carriera di regista nel 1911 per concluderla 50 anni dopo, nel 1961, con quasi 400 titoli a lui accreditati.
Il soggetto di Veneri rosse è tratto da un romanzo di James M. Cain, e narra i destini incrociati di due sorelle e due banditi durante le elezioni del sindaco di una città californiana.
Aldilà della trama, comunque interessante, emerge lo stile della messa in scena. Quasi interamente girato in studio e quasi sempre in interni, Dwan sceglie di privilegiare colori e illuminazione del set sul modello dei coevi splendidi melodrammi di Douglas Sirk, ma con finalità assai diverse. In Veneri rosse i tagli di luce orizzontali e le ombre nette e spigolose non rivelano le pulsioni erotiche costrette nelle gabbie del conformismo middle class americano come in Sirk, ma in maniera più funzionale accentuano il carattere brutale, spietato e corrotto che assume la lotta per il potere e per il controllo della città. Molto spesso è il buio ciò che circonda i protagonisti, che agiscono all'interno di lussuosi appartamenti e ville sul mare perfettamente arredati dove però i fiori nei vasi sono sempre appassiti, mentre la cinepresa inquadra il set da punti di vista e distanze che ricordano più il cinema degli anni venti che quello degli anni cinquanta.
La violenza domina e condiziona le esistenze dei personaggi, e viene mostrata con una durezza per l'epoca certamente inconsueta. Ottima infine la scelta degli attori, con John Payne perfetto nel ruolo dell'arrampicatore senza scrupoli e Arlene Dahl in quello della sfortunata ladra ninfomane.


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lunedì 27 agosto 2007

"LA SCONOSCIUTA" di Giuseppe Tornatore, 2006

Molti anni fa ebbe rilievo un articolo in cui Goffredo Fofi si scagliava contro il cinema di quelli che lui chiamò i "Tornatores" (Tornatore e Salvatores), che in quel periodo venivano osannati dai media italiani grazie agli inattesi oscar per Nuovo cinema paradiso e Mediterraneo, denunciando - se la memoria non mi inganna - il progressivo appiattimento della critica nostrana su posizioni di regime, che all'epoca parlava dei due registi sopra citati come dei nuovi Fellini del cinema italiano. Era quello un periodo - primi anni novanta del Novecento - in cui le poche sale rimaste aperte tornavano ogni tanto miracolosamente a riempirsi di spettatori nei fine settimana e il lunedì sera (con il biglietto ridotto per tutti), dopo la catastrofe degli anni ottanta. C'era un pò di ottimismo, insomma. Detto questo, quale era il difetto di Tornatore e Salvatores, secondo Fofi? Il difetto era quello di essere come i loro critici adulatori, cioè accomodanti e conciliatori, dei Pippo Baudo in erba, alla fine dei conti non dei veri intellettuali. Probabilmente era così, ma a questo punto va detto: Salvatores, e soprattutto Tornatore, per quanto manieristi, per quanto "sponsorizzati" sono due registi che si sono consapevolmente mossi con l'obiettivo di occupare uno spazio lasciato vuoto all'interno del panorama cinematografico nazionale - il cinema come spettacolo - mentre decine di altri si affannavano a realizzare film "impegnati" per la sempre meno tollerante élite piccolo borghese di sinistra, raccontando di piccolissimi drammi famigliari, di solidarietà fra ricchi e poveri perchè i soldi non sono tutto, di delicate e commoventi storie d'amore fra muratori pugliesi e prostitute albanesi. Dal punto di vista della sopravvivenza loro e del cinema mainstream, avevano ragione i "Tornatores".

Fra i due cineasti, il più ambizioso e dotato, quello che davvero vorrebbe essere Fellini ma che per fortuna ha capito di non esserlo, è Giuseppe Tornatore. Il suo ultimo film La sconosciuta, non solo diretto ma anche scritto e sceneggiato, è un thriller, un buon thriller. Per non lasciare dubbi sui modelli di riferimento, le musiche citano Psycho e le immagini Vertigo. Nei momenti più a rischio di una trama che poteva offrire molti alibi, Tornatore calca sì la mano, ma senza deformare, mostra ma senza cedere al voyeurismo più gretto. Dirige molto bene un cast di qualità per gli standard attuali e soprattutto utilizza il montaggio, per creare inquietudine o suspense, a seconda dei casi. Dopo la prima ora molto è già stato svelato e si procede per colpi di scena più o meno riusciti piuttosto che per reale sviluppo drammaturgico. Il film perde la compattezza iniziale, ma tuttavia non ci si annoia.
Ispirato da un trafiletto su un giornale, La sconosciuta è anche la storia dell'inferno quotidiano di una schiava nell'Italia del duemila.

Un pò come era stato per Michele Placido con Romanzo criminale, Tornatore riesce nella lodevole impresa di offrirci un film molto più dignitoso o al limite più "di sinistra" di tutto quanto quel cinema (Moretti, Benigni, S. Guzzanti, Luchetti ecc.) che tanto piace alla società civile di oggi. Dato il contesto attuale, non è poco.


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venerdì 10 agosto 2007

"L'OMBRA DEL POTERE" di Robert De Niro, 2006

14 anni dopo il buon esordio di Bronx, De Niro torna alla regia con L'ombra del potere, ovvero trent'anni nella vita di un funzionario CIA. Protagonista assoluto del film, nei panni della spia Edward Wilson, Matt Damon. L'affresco epico e tragico del cuore nero USA, sul modello stilistico de Il padrino di Coppola (ma viene in mente anche il Nixon di Stone) a De Niro non riesce molto bene. Troppi i temi che emergono ma che non riescono a svilupparsi, pochi i momenti in cui le immagini mostrano qualcosa oltre alle parole.
L'aspetto privato del protagonista rapportato a quello pubblico è il motore narrativo della pellicola, che a poco a poco svela le contraddizioni che il mestiere di spia porta con se. L'impassibilità di Matt Damon è funzionale al ruolo interpretato, ma la recitazione sua e di tutti gli altri attori (spicca Angelina Jolie nella parte della moglie di Wilson) non toglie e non aggiunge nulla al film. Tra i molti temi suggeriti il parallelismo CIA-Nazismo è quello più suggestivo e esplicitato. Tuttavia De Niro non scende quasi mai in profondità, non osa il confronto con i fantasmi, non scardina le certezze, e in fondo mostra cose che già sappiamo tutti, senza capire bene se il film voglia essere un saggio sulla banalità del male, la descrizione del potere WASP o una parabola biblica. Certo, non si tratta di un'opera di basso livello, ma il senso di inquietudine, di vuoto e di solitudine che il film riesce a comunicare non è abbastanza per un'opera che nasceva con ben altre ambizioni.


p.s. Una nota per gli amanti del cinema classico: non ne siamo sicuri, ma ci piace immaginare che la scena in cui la dirigenza della CIA canta e danza con le gonne hawaiiane sia una citazione della danza della morte in La regola del gioco.


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