"FLASH FORWARD", serie tv, USA 2009, di David S. Goyer
Intrigante, non c'è che dire. Pensiamo però che si tratti di un sostanziale passo indietro rispetto ad altre recenti produzioni televisive americane (Lost e Mad Men su tutte); non tanto relativamente alla storia narrata, quanto piuttosto alla sua realizzazione filmica. Ciò che non funziona (o funziona meno bene che altrove) è ciò che sollitamente chiamiamo regia, le scelte ad essa connesse, il lavoro sull'immaginario del telespettatore.
Vediamo come inizia il primo episodio. Un uomo è a terra, forse ferito. Comincia a muoversi, si trascina carponi. Scopriamo che si trovava sotto un'auto capovolta. L'uomo si alza, si guarda intorno e si accorge (noi con lui) che è appena avvenuto un disastro. Morti, feriti e persone sotto shock che vagano per la strada.
Si tratta, concettualmente, dell'incipit di Lost. Citazione, omaggio o cos'altro? La spiegazione ci viene fornita subito dopo, quando vediamo e sentiamo la sigla della serie: un effetto sonoro e una scritta, Flash Forward. Anche qui, il rimando a Lost è evidente. E a questo punto, ridondante.
Perchè l'effetto diventa didascalico. Questi primi minuti, infatti, sembrano volersi accattivare, con una sorta di promessa di qualità, un pubblico preciso, numeroso ma esigente: i fans di Lost. Come se, evidentemente, dal confronto si uscisse sconfitti in partenza.
Vediamo un altro frammento. Immediatamente prima della sigla c'è un'inquadratura che secondo noi svela la reale ambizione dei realizzatori della serie, o meglio, il punto di incontro di più esigenze. E' l'immagine di un uomo avvolto dalle fiamme, che corre fra le auto incidentate, urlando.
Dire che si tratta di un clichè è riduttivo. L'immagine infatti, oltre che essere abusata, appare "appiccicata" alle altre, quasi fuori contesto. Questo effetto "inserto" non è funzionale ad altro che alla spettacolarizzazione ulteriore del disastro che stiamo assistendo. Qualcuno, come noi, storcerà il naso di fronte a questo surplus di senso. Molti altri, invece, riconosceranno proprio in quell'inserto il culmine della tensione narrativa. Ci pare esplicita dunque, la ricerca, di un pubblico ancora più vasto di quello che ha decretato il successo di Lost. Un pubblico meno esigente, e più giovane.
Questo tentativo di creare una serie tv di grande successo di pubblico e allo stesso tempo di grande successo di critica, si rivela maldestro anche soffermandosi, ad esempio, sulle musiche di repertorio utilizzate in questi primi due episodi. Nel primo ci viene fatto ascoltare - Eminem sarebbe stato troppo banale, avranno pensato - l'ultimo singolo di Mos Def, Quiet dog bite hard, associato al personaggio della studentessa baby-sitter; nel secondo episodio, in una sequenza che ci mostra alcuni personaggi alle prese con dubbi e sofferenze, viene invece utilizzato un brano di Nick Drake, Place to be: scena malinconica, canzone del più malinconico - ma di culto! - dei cantautori. E così anche Nick Drake riesce a diventare musica-tappezzeria, sfondo a una recita di basso profilo, che tutto equipara.
Ecco, tutto questo materiale eterogeneo, tutti questi ammiccamenti, l'assenza (almeno per ora) di percorsi alternativi alla semplice trama narrativa, i riferimenti fini a se stessi, a cui aggiungiamo il ritmo frenetico ma monocorde del montaggio, la medietà degli attori e della loro direzione, la fotografia di ultima tendenza, fanno di Flash Forward una serie che - ahinoi - riporta il telefilm indietro di 10 anni, alla sua dimensione standard.
Lo schermo si rimpicciolisce, i sogni altrettanto. E al telespettatore, in cambio della complicità su di un sapere che si vorrebbe raffinato, viene lanciato un salvagente che è costretto a indossare, ma di cui francamente non sentiva più il bisogno.