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mercoledì 5 giugno 2002

Presentazioni "La via lattea"

LA VIA LATTEA

(La Voie Lactée)

(Francia – Italia 1969)



Regia : Luis Buñuel ; Sceneggiatura : Luis Buñuel, Jean-Claude Carrière; Fotografia: Christian Matras; Montaggio: Louisette Hautecœur; Produttore: Serge Silberman.

Interpreti: Paul Frankeur (Pierre), Laurent Terzieff (Jean), Alain Cuny, Michel Piccoli, Pierre Clementi, Delphine Seyrig

Uno dei luoghi comuni da sfatare sul cinema di Luis Buñuel è relativo alle componenti irrazionali e oniriche dei suoi film, divenute la giustificazione storica per tutti i senza talento che pensano di fare del cinema o dell’arte mettendo un titolo sotto al nulla appeso al muro o in corso di proiezione. Niente in Buñuel è lasciato al caso, e niente è frutto di visioni e ispirazioni inafferrabili. Al contrario, tutto tende a risultare il più concreto e materiale possibile. È sufficiente analizzare uno qualunque dei film di Buñuel per rendersi immediatamente conto dell’ estremo rigore con cui questi vengono immaginati, scritti e girati. L’idea vagamente metafisica diventata prepotentemente alla moda fra i mediocri e innocui (quando non dannosi) “artisti” dell’epoca postmoderna, per cui una macchia su un muro, una ripresa obliqua, una frase sgrammaticata realizzate sull’onda di uno slancio “creativo” dall’ultimo degli ignoranti e arroganti figlio di papà che si rivendica pittore, regista, scrittore è un’opera d’arte, non vale certamente per uno come Buñuel. Tutti i suoi film, da Un Chien andalou a Quell’oscuro oggetto del desiderio, sono opere costruite da una mente razionale, limpida e acuta, capace di smascherare attraverso le possibilità offerte dal mezzo cinematografico la falsa coscienza, il moralismo, la barbarie della classe borghese. Senza dubbio Buñuel possedeva anche molto talento e molta intelligenza, ma ciò, di per sè, non sarebbe sufficiente a fare di lui un artista del cinema. Lo scarto, come sempre, si trova nella visione del mondo e nel modo con cui ci si rapporta ad esso. La via lattea, un film che affronta direttamente questioni teologiche (dall’eucarestia alla trinità), offre una visione del mondo in cui si oppongono posizioni dogmatiche e antidogmatiche, di cui a farne le spese sono come sempre gli innocenti. Se l’indeterminatezza poetica è quell’elemento irriducibile che svela una verità particolare e parziale e la mostra non come dato assoluto, ma come tensione verso di essa, La via lattea è forse il più teorico ma anche il più profondo dei film di Buñuel, in quanto - nella sua apparentemente delirante struttura narrativa – mostra con esemplare chiarezza corsi e ricorsi storici dei vari aut-aut sintetizzabili nella formula o con me o contro di me. Quanti impiegati dell’arte hanno almeno la consapevolezza di avere scelto di stare dalla parte del padrone, dunque di avere perso la loro misera battaglia in partenza?

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«L’idea di un film sulle eresie della religione cristiana risaliva alla lettura, poco dopo il mio arrivo in Messico, della summa di Menéndez Pelayo Gli eterodossi spagnoli. Questa lettura m’insegnò molte cose che non sapevo, in particolare sui martiri eretici, convinti della loro verità quanto i cristiani, se non di più. Nel comportamento dell’eretico è proprio questa convinzione di possedere la verità, nonché la stranezza di certe invenzioni che mi ha sempre affascinato. In seguito avrei trovato una frase in cui Breton, malgrado la sua avversione per la religione, ammetteva che il surrealismo riconosce di avere “certi punti di contatto” con gli eretici.

Tutto quello che si vede e si sente nel film si basa su documenti autentici. Il cadavere dell’arcivescovo riesumato e bruciato pubblicamente (perché dopo la morte erano stati trovati, scritti di suo pugno, testi viziati dall’eresia) fu nella realtà quello di un arcivescovo di Toledo che si chiamava Carranza. Iniziammo con un lungo lavoro di ricerca al centro del quale troneggiava il Dizionario delle eresie dell’abate Pluquet, poi scrivemmo la prima stesura nell’autunno del 1967, al parador di Cazorla in Spagna, nella provincia di Jaén. Eravamo soli, Carriére e io, fra le montagne dell’Andalusia. La strada si fermava all’albergo. Dei cacciatori partivano all’alba per rientrare solo a notte fatta, portando ogni tanto il dolce cadavere di uno stambecco. Per tutto il giorno non parlavamo che della Trinità, della duplice natura di Cristo, dei misteri della Vergine Maria. Sibelrman accettò il progetto, cosa per noi incredibile, e terminammo lo script a San José Purua nel febbraio-marzo 1968. Messo per un attimo in pericolo dalle barricate del maggio’68, il film venne girato a Parigi e nella regione circostante durante l’estate. Paul Frankeur e Laurent terzieff incarnarono i due pellegrini che vanno a piedi, ai nostri giorni, a Santiago de Compostela, e che lungo la strada, liberati dal tempo e dallo spazio, incontrano tutta una serie di personaggi che illustrano le nostre eresie principali. La via lattea, di cui a quanto sembra facciamo parte, si chiamava una volta “il sentiero di San Giacomo” (cioè Santiago) perché indicava la direzione della Spagna ai pellegrini che arrivavano da tutta l’Europa del Nord. Di qui il titolo. In quel film, dove ritrovavo Pierre Clementi, Julien Bertheau, Claudio Brook e il fedele Michel Piccoli, lavorai per la prima volta con Delphine Seyrig, attrice notevolissima, che a New York durante la guerra avevo fatto saltare sulle ginocchia. Per la seconda –e ultima- volta mettevo in scena Cristo stesso, impersonato da Bernard Verley. Ho voluto mostrarlo come un uomo normale, che ride e corre, che sbaglia strada, che si dispone perfino a farsi la barba, molto lontano dall’iconografia tradizionale.

E dato che parliamo di Cristo, mi sembra che nell’evoluzione contemporanea della religione Cristo si sia impadronito di un posto privilegiato nei confronti delle altre due persone della Santissima Trinità. Si parla solo di lui. Dio Padre esiste ancora, d’accordo, ma molto vago, molto lontano. Quanto al povero Spirito Santo, nessuno gli bada e adesso fa l’accattone.

Malgrado la difficoltà e la stranezza del soggetto, il film, grazie alla stampa e agli sforzi di Silberman, senza dubbio il miglior promotore cinematografico che io abbia mai conosciuto, ottenne un successo più che onorevole. Come Nazarin, suscitò reazioni molto contrastanti. Carlos Fuentes lo considerava un film di lotta, antireligioso, mentre Julio Coltàzar arrivava a dire che gli sembrava pagato dal Vaticano.

Questi processi alle intenzioni mi lasciano sempre più indifferente. Per me La via lattea non era pro questo né contro quello. Il film, oltre alle situazioni e alle dispute dottrinarie autentiche che mostrava, mi sembrava innanzitutto una scorribanda nel fanatismo in cui ciascuno si aggrappava con forza e intransigenza alla propria porzione di verità, pronto a uccidere o morire per lei. Così mi sembrava che la via percorsa dai due pellegrini si potesse applicare a qualsiasi ideologia politica e perfino artistica». (Luis Bunuel)


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