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mercoledì 26 novembre 2003

Presentazione "Cane bianco"

CANE BIANCO

(USA 1982, col, 89’)

r.: Samuel Fuller
f.: Bruce Surtees
int.: Kristy McNichol, Paul Winfield,
Burl Ives, Jameson Parker


Penultimo film di Samuel Fuller e ultimo della programmazione invernale di quest’annata di KinoGlaz. Lungometraggio inizialmente in mano a Roman Polanski, di certo non ricordato tra i più rappresentativi del grande giornalista-regista, è invece una summa precisa delle indagini del cineasta. Malgrado l’estetica a prima vista appaia approssimativa, con vaghe caratteristiche da telefilm di molto cinema degli anni ottanta che lo accomunano ad un'altra opera straordinaria del periodo, Osterman Weekend (1983) di Sam Peckinpah, White Dog è costruito su di una messa in scena raffinatissima che esalta ogni codice nei suoi dettagli meno appariscenti. Un autentico emotion picture come avrebbe detto Fuller, un cinema cioè di puro intrattenimento e alto spettacolo che evita in ogni modo di farsi ingabbiare in dimensioni da cliché autoriale, mentre proprio Sammy fu per Godard non meno importante di Welles. Una riflessione sul male e sulla violenza, sul razzismo del belpensare statunitense e sull’impossibilità di passare illesi dal male al bene e viceversa malgrado i sogni più o meno personali degli uomini che, semplificando i rapporti di forza e di violenza, nel tentativo di correggere con le buone azioni il passato liberano la schizofrenia, la brutalità incondizionatamente cieca della modernità sempre pronta a colpire nel mucchio. Così il cane bianco possiamo leggerlo come il perfetto cittadino medio americano, educato dalla società all’intolleranza e pronto a moltiplicare la forza delle proprie azioni repressive nel momento in cui viene ‘educato al bene’.

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mercoledì 5 novembre 2003

Presentazione "La morte corre sul fiume"

LA MORTE CORRE SUL FIUME

(Charles Laughton)

Regia: Charles Laughton. Soggetto tratto dalla novella di Davis Grubb. Sceneggiatura: James Agee, Charles Laughton. Fotografia: Stanley Cortez. Musica: Walter Schumann. Montaggio: Robert Golden. Interpreti: Robert Mitchum, Shelley Winters, Lillian Gish

Produzione: Paul Gregory

Durata: 90’. USA 1955, b/n

Regia unica di uno dei più grandi attori prestati al cinema dalle scene inglesi e statunitensi, Night of the Hunter si colloca tra quelle eccezioni dialettiche tra il classico e lo sperimentale, spartiacque di uno dei decenni più importanti per le immagini in movimento. Classico nel senso del corteggiamento suadente al gusto narrativo di rado lineare, nella presenza delle migliori collaborazioni ipotizzabili per l’epoca: la luce che ammicca all’espressionismo di Cortez, l’ultima sceneggiatura di Agee, la forma smagliante della contraddizione di Mitchum e la grazia del volto antico di Lillian Gish. Sperimentale per la messa in scena lucidamente cosciente di non possedere i mezzi delle decisioni a tavolino, quindi costretta a inventarsi angoli di ripresa e tagli di inquadrature imprevedibili, stupefacenti, pirotecnici: «Resta il cinema dei punti di vista multipli, in definitiva il più grande. Quello a cui capita di essere popolare ma non lo è per forza. Quello che deve destreggiarsi con la paranoia, la legge, la follia. Fra quanti rientrano in questa categoria, che è quella del polifonico, del carnevalesco, non immagino film migliore de La morte corre sul fiume (forse Ivan il terribile, 2001: Odissea nello spazio, qualche Ford)» (S. Daney). Sempre in bilico tra le nocche tatuate di Harry Powell attraversiamo nello stesso istante della durata del film un susseguirsi di mondi apparentemente inconciliabili: l’esasperazione del falso puritanesimo provincialista statunitense che genera una morale folle ma contemporaneamente rigorosa, la concomitanza bilanciata sino al sublime del noir più torbido con la dimensione lirica e fiabesca. Proprio l’infanzia e le sue trappole legano questo film alla passata proiezione di M: due “mostri” della società che si accaniscono contro i bambini. Per entrambi, ma soprattutto per lo spettatore che deve trovare il coraggio di leggere tra le righe, vale il nero ammonimento delle cupe mamme langhiane: «Dovete aver cura dei vostri figli», sarebbe un errore immaginarlo banalmente rivolto alle famiglie delle vittime.

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mercoledì 29 ottobre 2003

Presentazione "Honkytonk Man"

Honkytonk Man

(USA 1982, col, 122’)

r.: Clint Eastwood

s., sc.: Clancy Carlile

f.: Bruce Surtees

mus.: Steve Dorff

scg.: Gary Moreno

m.: Ferris Webster, Michael Kelly, Joel Cox

int.: C. Eastwood, Kyle Eastwood, John McIntire

p.: Malpaso Company

Quasi un caso la benvenuta coincidenza di questa proiezione con l’uscita del nuovo grande film di Eastwood, Mystic River. Come per ogni suo lavoro, anche Honkytonk Man, a nostro avviso uno dei suoi lungometraggi più duri e poetici, ci racconta un’America che nell’ultimo ventennio pochissimi autori, e forse nessuno come Clint, ha avuto le capacità e il coraggio di affrontare. Il Dark Side della Nashville altmaniana, sfavillante di lustrini e intolleranza, il tempio del countrydenaro e dello stivale a punta, resta poco più di un miraggio per il cantautore Red Stovall (lo stesso Eastwood che realmente canta i brani del film). L’America dei vinti, della depressione, della malattia e dei sogni che non si realizzano, ci viene raccontata esplorando i luoghi del dolore e della miseria, attraverso la lunga agonia fisica ed esistenziale di Stovall che in extremis riuscirà ad incidere qualche brano prima di morire. Personaggio di certo contraddittorio, Clint Eastwood è oggi uno dei più grandi registi in attività che riesce a ritagliarsi spazi, unici e solitari, nella fogna cinematografica statunitense (la Malpaso Company è il marchio oggi indelebile delle produzioni eastwoodiane al di fuori dei meccanismi di dominio delle major hollywoodiane) dando spazio al consueto crudo lirismo a cui ci ha abituato sin dai tempi delle grandi prove attoriali pilotate dai suoi maestri (a cui tra l’altro dedicò Gli Spietati): Don Siegel e Sergio Leone.

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mercoledì 22 ottobre 2003

Presentazione "M, il mostro di Dusseldorf"

M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF

(Fritz Lang)

Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Egon Jacobson e Thea von Harbou. Fotografia: Fritz Arno Warner. Montaggio: Paul Falkenberg accompagnato a tratti dal Peer Gynt di Edvard Grieg. Interpreti: Peter Lorre/Franz Becker, Ellen Widman/Madame Beckmann, Inge Landgut/Elsie Beckmann, Theodor Loos/Commisioner Groeber, Gustaf Grüdgens/Schraenker.

Produzione: Seymour Nebenzal.

Durata: 117’. Germania, 1931, b/n

Restauro: Germania 2000/99’ USA

Tra le migliori intuizioni di Françoise Truffaut di sicuro c’è l’aggettivo cucito addosso al cinema di Fritz Lang: inesorabile. Tutto ciò che si può arrivare a conoscere delle immagini in movimento è, in modi diversi, contenuto in questo film immenso. Possiamo solo continuare a rivederlo, giocando non senza paura con questo meccanismo perfetto e riscoprire le ipocrisie dell’uomo moderno, l’impossibilità di distinguere tra criminalità organizzata e polizia, ma soprattutto a spaventarci nella rivelazione ossessiva di come anche il peggiore dei mostri può arrivare ad apparire un agnellino di fronte all’uomo perbene. La versione proiettata è frutto di un restauro avvenuto nel 2000 che ci permette finalmente di vedere quest’opera integra.

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mercoledì 15 ottobre 2003

Presentazione "Il fantasma del palcoscenico"

IL FANTASMA DEL PALCOSCENICO

(Brian DePalma)

Regia, soggetto e sceneggiatura: Brian DePalma. Fotografia: Larry Pizel. Montaggio: Paul Hirsen. Musica: Paul Williams. Interpreti: P. Williams, W. Finley, G. Memmoli, O. Oraham, J. Harper

Produzione: Harbor Production

Durata: 92’. USA 1974, col

Secondo film di De Palma ospite di KinoGlaz. Non è un caso che, come per la scelta di proiettare lo scorso anno Mission to Mars, anche Phantom of the Paradise sia una delle opere che meno rispondono alle peculiarità, notoriamente e spesso splendidamente hitchockiane, dell’autore. Un episodio, un film che in qualche modo fa storia a sé divenendo inimitabile e per questo plurimitato, un anticapolavoro ante-litteram che detiene una grandezza proprio nei suoi sprechi, nella ferocia con cui difende il suo non mostrarsi indispensabile. In fondo è la dimensione di molti lavori di De Palma: l’imbarazzo costante di non essere Hitchcock o Hawks, il pudore di non dare completo fondo al proprio talento perché, anche consumatolo fino all’ultima goccia, la lontananza concreta e ideale dai maestri sarebbe comunque manifesto di un peso sgraziato e pretenzioso. Da qui il coraggio di giocare, con risultati non di rado stupefacenti come ribadito nell’ultimo Femme Fatale, e osare con momenti costantemente importanti della storia del cinema attraverso meccanismi maledettamente moderni incastonati in una tradizione dimenticata di spettacolarità. Ripetizione, citazione, sberleffo. Anche nel caso de Il fantasma del palcoscenico la tradizione non è quella dell’incolore romanzo di Gaston Leroux del 1911, ma il percorso sterminato di quel cinema dei mostri che ha segnato una traccia netta nel breve viaggio del cinema novecentesco. La banalità del tutto apparente del sostrato pop-rock (con le musiche scritte dallo stesso protagonista), l’esagerazione delle coreografie della futura Carrie (Sissy Spacek), il montaggio frenetico, la regia che fa di tutto per non farsi notare, hanno in fondo caratteristiche consimili al protagonista stesso (del libro, del film, di tanti film) del falso fantasma: vivo, vegeto, umano, mortale, condannato all’eterna autorappresentazione (discografici permettendo…).

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mercoledì 8 ottobre 2003

Presentazione "F for fake"

f for fake, Iran/Francia/RFT 1975, col, 85’

R., s, sc.: Orson Welles

f.: Christian Odasso, Gary Graver

m.: Marie-Sophie Dubus, Dominique Engerer

int.: Orson Welles, Oja Kodar, Francois Reichenbach, Joseph Cotten, Clifford Irving, Elmyr de Hory

p.: Saci/Les Film de l’Astrophore/Janus Film

L’inaugurazione del nuovo anno del cineforum si ripresenta con un film senza epigoni. Un’opera che da sola riesce a mostrare e inventare una storia dell’arte, capace di non tralasciare esibizioni e riflessioni sul mezzo veicolando elementari e imbarazzanti verità in grado di sgretolare le sovrastrutture stesse della cultura fino all’inevitabile scomparsa del creatore. «Sono un ciarlatano» ci dice Welles prima di confondere le carte fino a farle scomparire, mostrando un’ora di autenticità fatta di truffe, raggiri, bugie. Così uno dei più grandi affabulatori del secolo trascorso mantiene la sua prima promessa di veridicità dopo averci convinto dell’impossibilità dell’assunto stesso. Per raggiungere il fine ancora una volta arriva a utilizzare, in maniera completamente difforme dalle pellicole precedenti, la forma a lui più congeniale: il racconto. Prendendo spunto da un progetto iniziato dal documentarista Francois Reichenbach, presente nel film sia con le immagini da lui girate prima dell’avvicinamento di Welles che fisicamente, ci viene illustrata attraverso schegge impazzite comandate a bacchetta la vita ad Ibiza del falsario ungherese Elmyr de Hory. Specializzato nelle riproduzioni dei post-impressionisti, questo personaggio realmente esistito e presente nel film trascende la stessa creazione wellesiana, dimostrando come la realtà possa ridicolizzare l’arte e i suoi compatrioti. Con lui il falso biografo di Howard Huges, Clifford Irving, e la dolorosa disillusione di Welles che ripercorre tratti della sua osteggiata attività. Non è più il solito vecchio trucco del coniglio nella giarrettiera, la realtà nell’arte semplicemente non esiste e ciò di cui va preso atto è semplicemente la qualità del falso. È proprio questo tautologico gioco del ‘falso falsario’ che cristallizza l’ineccepibile verità contenuta nell’opera. Solo un’artista (tale anche perché riesce a convincerci dell’inesistenza di un creatore di opere in senso assoluto) come Orson Welles poteva arrivare al punto di non ritorno sull’argomento rivolgendo i mezzi espressivi contro se stessi. Da un lato convinte argomentazioni contro la banalità della tecnica («Nel cinema come in qualsiasi mestiere la tecnica si impara in quattro giorni»), dall’altro la capacità di confezionare opere di una complessità assoluta e abbagliante. Senza la profondità di campo o i piani sequenza che ci raccontano i manuali, F for fake imbarazza per un montaggio pirotecnico senza pari, frutto proprio dell’esaurimento della tecnica stessa. Ciò che spesso sfugge del film resta comunque il tempo della promessa iniziale di Welles. Un’ora di verità, e dopo? Scaduto l’intervallo il castello crolla nuovamente, «la foresta di pietra» di Chartres riempie l’immagine mentre la voce dell’attore, ancor prima che regista, ci pone di fronte al fatto compiuto, l’opera senza firma dell’immensa cattedrale circondata della nebbia (vera nebbia o mascherino?). Siamo tornati al cinema delle bugie che vogliamo sentirci raccontare per crederle vere e alle verità che più o meno volontariamente si ignorano, perdendosi nello spettacolo. Mentre le parole di fronte a Chartres rintoccano: «Forse il nome di un uomo non è così importante», l’ora è passata da un pezzo, il gioco è finito, tocca a noi e a nessun altro decidere se crederci oppure no, la certezza che abbiamo è la grandezza e l’autenticità dell’uomo e dell’attore, per i preziosi strumenti che ci consegna.


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mercoledì 28 maggio 2003

Manifesto seconda stagione - III parte

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mercoledì 14 maggio 2003

Presentazione "I figli della violenza"

I FIGLI DELLA VIOLENZA

(Los olvidados, Messico, 1950, b/n, 86’)

R.: Luis Buñuel

s., sc.: Luis Buñuel, Luis Alcoriza

f.: Gabriel Figueroa

m.: Carlos Savage

int.: Estela Inda, Miguel Inclàn, Alfonso Mejia, Roberto Cobo

p.: Ultramar Films

Ancora Buñuel. Questa volta la proiezione è dedicata ad una delle sue opere maggiormente realiste che per nulla tradiscono la violenza con cui l’autore spagnolo è costretto a mostrarci il mondo. Anzi, se il grottesco delle implicazioni più o meno surrealiste di molti suoi film riportavano la critica sociale ad una dimensione strettamente intellettuale (ma perfettamente intelleggibile), in Los olvidados come in Las Hurdes la brutalità del capitalismo contro chi non ne fa parte, le sue vittime più facili e lontane, viene esaltata da una rappresentazione esasperante e concreta. L’esordio con il cuore borghese delle capitali-confetto diviene il preludio per una discesa all’inferno in cui la lotta per la sopravvivenza non lascia speranze di sopravvivenza se non nella disperazione di una ‘legge della giungla’ a cui viene sistematicamente proibito di relazionarsi con la società. Le periferie di Città del Messico sono un microcosmo esemplare degli olvidados (dimenticati) di tutto il pianeta. Un film che colpisce duro ancora oggi e sembra non dare vie d’uscita per l’assenza totale di presenze positive, per l’impossibilità di nutrire affetti o speranze per un futuro che non va oltre la morte del giorno dopo. Anche la famiglia, in molte opere di Buñuel uno dei cardini della culla borghese globale, diviene meccanismo di propagazione dello sfruttamento e della violenza. Mai il regista spagnolo è stato così immediato nell’individuare le barbarie generate da quella stretta minoranza che, nella più sponsorizzata delle corse all’accumulo, vuole imporre oggi come cinquanta anni fa l’autodistruzione di milioni di olvidados.

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mercoledì 23 aprile 2003

Presentazione "eXistenZ"

eXistenZ

(Canada-UK, 1998, col, 108’)

R.: David Cronenberg

sc.: David Cronenberg

f.: Peter Suschitsky

m.: Ronald Sanders

int.: Jennifer Jason Leigh, Jude Law,

Willem Dafoe, Ian Holm

p.: Alliance Picture INternational

Tra i pochi autori attivi che mai hanno smesso di ripetersi, mantenendo un rigore di volta in volta sempre più estremo e capace di sintetizzare una riflessione che più non distingue i modi di rappresentazione dai contenuti, David Cronenberg riveste un ruolo di primaria importanza nella cinematografia degli ultimi vent’anni. A confermarlo è stata ancora la sua ultima fatica, il raggelante Spider che segue di quattro anni il lungometraggio di questa sera. Il rapporto dell’uomo con il proprio corpo è il centro della relazione con una realtà divenuta più folle e incomprensibile del peggior incubo. L’accelerazione del progresso tecnologico e scientifico che viene venduto come una conquista dell’umanità capace di restituire libertà e benessere, è oggi uno delle tante migliorie per il controllo sulla schiavitù di una società che proprio con la realtà ha perso oramai ogni contatto e, come ci insegna il protagonista di Spider, tornare indietro significa dover affrontare un passato, anche nelle intimità degli affetti, assolutamente irriconoscibile. Dopo la televisione (Videodrome), la medicina (Inseparabili) e le automobili (Crash), il ‘videogioco’ eXistenZ affronta direttamente la virtualità della reale realtà e viceversa, da cui lo stesso Cronenberg, imprigionato in primis dalla sua sceneggiatura, cerca una via di fuga quasi disperata. Unico dato vero è proprio l’esistenza del ‘giocattolo’ di carne e ossa che ha sublimato definitivamente la percezione della tecnologia, divenendo parte stessa dei corpi se non corpo supremo sostenuto da un’evasione continua di una pratica cosciente della quotidianità che all’interno come all’esterno del film non esiste più per nessuno. Comune agli ultimi lungometraggi dell’autore è la freddezza della fotografia, utile a scavare un confine ancora invalicabile tra rappresentazione e fruizione, che mostra l’oggetto-film in quanto tale, ghiacciando le emozioni per sostenere lucidamente una riflessione sull’impossibilità stessa dello riconoscere le cose per quello che sono, tentando di mettere in discussione la stessa percezione di uno spettacolo che crediamo di vedere. A questo concorre un altro tratto fortemente distintivo di Cronenberg che riesce da solo a saldare le contraddizioni dell’incomprensibile: l’essenzialità chirurgica nell’uso della macchina da presa, ennesimo meccanismo incapace di definirsi e di mostrarsi, preciso nel sezionare l’indispensabile per annullare i contesti e rendere universale l’orrore di ciò che ci circonda: il primo passo che si può compiere attraverso la visione di eXistenZ è quello di riconoscerlo.

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mercoledì 16 aprile 2003

Presentazione "Pinocchio"

PINOCCHIO

OVVERO

LO SPETTACOLO DELLA PROVVIDENZA

(Italia 1999, col, 75’, tv)

Regia teatrale e televisiva, scene, maschere e costumi: Carmelo Bene

Sceneggiatura: Carmelo Bene dal romanzo di Collodi

Fotografia video: Gianni Caporali

Montaggio: Fabio Loli

Voci: Carmelo Bene, Sonia Bergamasco

Musiche: Gaetano Giani Leporini

Fonico: Andrea Macchia

Produzione: RAI in collaborazione con Nostra Signora S.r.l.

«Davvero, come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi. Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri: tutti, anche i Grilli parlanti. Ecco qui: perché io non ho dato retta a quell'uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai, Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte»

Bene per quattro volte a teatro (1961, 1966, 1981, 1998), una volta per radio (1981) e una volta in televisione (1998) ma, e non sarebbe stato possibile altrimenti, non ha nemmeno sfiorato la sua breve ed eccezionale parentesi cinematografica. Solo nel levarsi contro il mondo, il burattino-attore che vuole diventare bambino deve disfarsi delle oneste maniere, del buonismo del babbo-falegname, della falsa morale della fatina e dei ‘buoni consigli’ del grillo parlante. Ad essere burattini, fantocci senza metodo, sono infatti tutte queste ‘brave persone’ che ruotano intorno alle voci di un Pinocchio sin dall’inizio tragicamente più umano di ogni altra presenza. Un burattino per eccellenza anacronistica antiborghese, che non esita a sputare a Geppetto che come un fesso si è venduto la casacca per comprare un abbecedario del teatro che Carmelo Bene ha polverizzato sin dagli esordi. Lo stesso si può dire del contesto televisivo che toglie in un sol colpo qualsiasi spunto avventuroso del romanzo di Collodi. Poche scenografie e campi ravvicinati, nessuna azione compiuta fino in fondo, se non quella di inseguire il termine di una gamma vocale di toni inesauribile, fanno di questa versione del Pinocchio una molecola concentrata fino al collasso della poetica (d’attore, di scrittore, di regista, di compositore, di interprete) di uno tra i più grandi artisti del Novecento europeo.

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mercoledì 9 aprile 2003

Presentazione "Gangs of New York"

GANGS OF NEW YORK

(USA 2002, col, 170’)

R. : Martin Scorses

s.: Jay Cocks

sc.: Jay Cocks, Steven Zailland, Kenneth Lonergan

f.: Michael Balhaus

m.: Thelma Schoonmaker

int.: Leonardo Di Caprio, Daniel Day Lewis, Cameron Diaz, Liam Neeson

Il cinema di Scorsese da sempre ci ha messo di fronte al rapporto tra l’autore, le sue opere, e le referenze critiche e passionali di determinati film e registi. Elemento che ha fondato con gli anni un pertinente, e per nulla nascosto, discorso contemporaneo sulla messa in scena della cinefilia che ci riporta immediatamente alle sue origini pratiche e teoriche, la «Nouvelle Vague». La presenza di Camille di Gorge Delerue in Casinò è solo uno degli elementi che inseriscono l’opera di Scorsese nelle le maglie di un complesso reticolato fatto di citazioni e rimandi, suggestioni e memorie, passioni e lucidità poetica, che attraversa una delle storie del cinema, la sua.

Gangs of New York pur continuando a esibire, con precisa consapevolezza, il ruolo di consumato spettatore con cui Scorsese è solito frequentare la pratica della regia, segna contemporaneamente la volontà di una ricerca antropologica autocritica, che mira senza presunzioni a riflettere sul proprio passato artistico seguendo un percorso in cui una forma sottile di metalinguaggio si rivolta su se stessa per divenire contemporaneamente oggetto di riflessione. La stratificazione del suo cinema, dallo spettacolo che non tradisce la stessa passionalità dello Scorsese spettatore alla cinefilia più ricercata, mantiene inalterati i tratti stilistici che ci hanno permesso di identificare e riconoscere l’autore fino ad oggi. Proprio la prima inquadratura del film ci dà la possibilità di vedere all’opera questa tendenza. L’uomo che si rade ci riporta in un istante ad uno dei primi cortometraggi dell’autore (The big shave, 1967) che inserisce le immagini che andremo a scorgere alle radici del cinema dell’autore stesso. Così un’opera in costume estranea ad una qualsivoglia età dell’innocenza si popola con i goodfellas delle gangs che dipingono uno scenario, uno sfondo antistorico e spettacolare che determina la principale essenza del film. Sapientemente Scorsese spreca senza nascondersi il plot melodrammatico costituito dalla vendetta di Amsterdam e dalla sua improbabile storia d’amore. Pochi i momenti concessi ai due e spesso assolutamente ridimensionati o ridicolizzati (come la comparsa di Bill avvolto dalla bandiera americana dopo la prima notte che la coppia passa insieme). Ciò che l’autore sostiene è infatti una dimensione strettamente cinematografica, la genesi preoccupante di un paese che non si può distinguere dallo spettacolo consumato e costruito dalla ‘passione’ scorsesiana. Il trucco, l’artificio e l’approssimazione del ricostruito si manifestano in ogni momento, come le strade finte che vogliono farci sentire la cartapesta e divengono a loro volta nuovi contenitori spettacolari di teatri (dall’elisabettiano al teatro di posa) e di battaglie carnevalesche. Un film fatto di sporcizia, di violenza, di ignoranza, che segna la consistenza dell’immigrato totale nordamericano, la costituzione con la forza della patria impossibile e dell’intolleranza. Inoltre c’è la New York dal basso di Scorsese ricostruita a cinecittà, in fondo la stessa autentica di Mean Streets e Goodfellas, che arriva fino alla nascita del cinema per potersi permettere le poche dissolvenza con cui il film si conclude, mostrandoci in un istante svanire il Novecento della metropoli statunitense che non ha cambiato di molto la sua costituzione. Opera incompresa, indigesta per l’oltreoceano e snobbata in Europa, Gangs of New York crescerà di importanza negli anni, fino a divenire pietra fondante di una imponente cinematografia nazionale abituata a vendicarsi dei capolavori generati al suo interno. L ’America nasce dalle strade come il cinema di Rossellini.

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mercoledì 12 marzo 2003

Presentazione "Il fantasma della libertà"

IL FANTASMA DELLA LIBERTÀ
(Le fantôme de la liberté, Francia 1974, col, 103’)
R. s.: Luis Buñuel
sc.: Luis Buñuel, Jean-Claude Carriére
f.: Edmond Richard
m.: Hélène Plemiannikov
int.: Bernard Verley, Paul Frankeur, Milena Vukotic, Michel Piccoli
p.: Greenwich Film

«Omaggio discreto a Karl Marx» che nel titolo richiama il celeberrimo esordio del Manifesto, già evocato da un passaggio de La via lattea, questo film oltre ad essere uno dei preferiti del regista è anche una tra le sue opere più complesse, stupefacenti e ambiziose. Costruito da episodi totalmente inorganici, antinarrativi, quasi quadretti impazziti come schegge incontrollabili e letali di una società esplosa, Il fantasma della libertà ci riporta alla sintesi estrema, al grado zero della riflessione di Buñuel. L’azione e l’impulso annullano qualsiasi psicologismo, la messa in scena tende ad annullarsi, anch’essa vittima dell’infinito inseguimento di quello ‘spettro’ la cui assenza ci mostra il vero volto di una realtà alla deriva. Il surrealismo non è mai stato così concreto e naturalista. L’educazione delle ‘forze dell’ordine’, la mitomania della società borghese autolegittimata dalla condivisione collettiva della produzione di merda, l’invisibilità tangibile della sovversione infantile, l’esaltazione della massa per lo stragismo ingiustificabile come l’iniziale guerra di liberazione che farà gridare ai presunti ‘liberati’: «Viva le Catene!» (di cui gli USA stanno per darci un nuovo e infame esempio), non sono altro che le manifestazioni primarie e impulsive della deflagrazione, se preferite defecazione, dell’accumulo del consumo liberista: cieco, inorganico, irraccontabile, capace di creare e distruggere senza differenze di sorta. Certo ci si trova una perfetta continuità con i film dell’autore che fino ad oggi hanno attraversato il Cineforum: «A ripensarci oggi mi sembra che La via lattea, Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà, che sono nati da tre soggetti originali, formino una specie di trilogia, o meglio di un trittico, come nel Medioevo. Nei tre film si ritrovano gli stessi temi, a volte anche le stesse frasi. Parlando tutti e tre della ricerca della verità, che bisogna fuggire appena si crede di averla trovata, dell’implacabile rituale sociale. Parlano tutti e tre della ricerca indispensabile, del caso, della morale personale, del mistero che bisogna rispettare». Tutto ciò che resta sarà uno struzzo e il suo sguardo vuoto e desolante ci sembra tutt’oggi il più lucido e consapevole del deserto buñueliano. Uccidere lo struzzo e sovvertire sono le uniche armi che ci restano, basta usarle fino in fondo.

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Manifesto seconda stagione - II parte

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COPERTINA 2° CD


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