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mercoledì 3 marzo 2004

Manifesto cortometraggi

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Manifesto terza stagione - II parte

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mercoledì 26 novembre 2003

Presentazione "Cane bianco"

CANE BIANCO

(USA 1982, col, 89’)

r.: Samuel Fuller
f.: Bruce Surtees
int.: Kristy McNichol, Paul Winfield,
Burl Ives, Jameson Parker


Penultimo film di Samuel Fuller e ultimo della programmazione invernale di quest’annata di KinoGlaz. Lungometraggio inizialmente in mano a Roman Polanski, di certo non ricordato tra i più rappresentativi del grande giornalista-regista, è invece una summa precisa delle indagini del cineasta. Malgrado l’estetica a prima vista appaia approssimativa, con vaghe caratteristiche da telefilm di molto cinema degli anni ottanta che lo accomunano ad un'altra opera straordinaria del periodo, Osterman Weekend (1983) di Sam Peckinpah, White Dog è costruito su di una messa in scena raffinatissima che esalta ogni codice nei suoi dettagli meno appariscenti. Un autentico emotion picture come avrebbe detto Fuller, un cinema cioè di puro intrattenimento e alto spettacolo che evita in ogni modo di farsi ingabbiare in dimensioni da cliché autoriale, mentre proprio Sammy fu per Godard non meno importante di Welles. Una riflessione sul male e sulla violenza, sul razzismo del belpensare statunitense e sull’impossibilità di passare illesi dal male al bene e viceversa malgrado i sogni più o meno personali degli uomini che, semplificando i rapporti di forza e di violenza, nel tentativo di correggere con le buone azioni il passato liberano la schizofrenia, la brutalità incondizionatamente cieca della modernità sempre pronta a colpire nel mucchio. Così il cane bianco possiamo leggerlo come il perfetto cittadino medio americano, educato dalla società all’intolleranza e pronto a moltiplicare la forza delle proprie azioni repressive nel momento in cui viene ‘educato al bene’.

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mercoledì 5 novembre 2003

Presentazione "La morte corre sul fiume"

LA MORTE CORRE SUL FIUME

(Charles Laughton)

Regia: Charles Laughton. Soggetto tratto dalla novella di Davis Grubb. Sceneggiatura: James Agee, Charles Laughton. Fotografia: Stanley Cortez. Musica: Walter Schumann. Montaggio: Robert Golden. Interpreti: Robert Mitchum, Shelley Winters, Lillian Gish

Produzione: Paul Gregory

Durata: 90’. USA 1955, b/n

Regia unica di uno dei più grandi attori prestati al cinema dalle scene inglesi e statunitensi, Night of the Hunter si colloca tra quelle eccezioni dialettiche tra il classico e lo sperimentale, spartiacque di uno dei decenni più importanti per le immagini in movimento. Classico nel senso del corteggiamento suadente al gusto narrativo di rado lineare, nella presenza delle migliori collaborazioni ipotizzabili per l’epoca: la luce che ammicca all’espressionismo di Cortez, l’ultima sceneggiatura di Agee, la forma smagliante della contraddizione di Mitchum e la grazia del volto antico di Lillian Gish. Sperimentale per la messa in scena lucidamente cosciente di non possedere i mezzi delle decisioni a tavolino, quindi costretta a inventarsi angoli di ripresa e tagli di inquadrature imprevedibili, stupefacenti, pirotecnici: «Resta il cinema dei punti di vista multipli, in definitiva il più grande. Quello a cui capita di essere popolare ma non lo è per forza. Quello che deve destreggiarsi con la paranoia, la legge, la follia. Fra quanti rientrano in questa categoria, che è quella del polifonico, del carnevalesco, non immagino film migliore de La morte corre sul fiume (forse Ivan il terribile, 2001: Odissea nello spazio, qualche Ford)» (S. Daney). Sempre in bilico tra le nocche tatuate di Harry Powell attraversiamo nello stesso istante della durata del film un susseguirsi di mondi apparentemente inconciliabili: l’esasperazione del falso puritanesimo provincialista statunitense che genera una morale folle ma contemporaneamente rigorosa, la concomitanza bilanciata sino al sublime del noir più torbido con la dimensione lirica e fiabesca. Proprio l’infanzia e le sue trappole legano questo film alla passata proiezione di M: due “mostri” della società che si accaniscono contro i bambini. Per entrambi, ma soprattutto per lo spettatore che deve trovare il coraggio di leggere tra le righe, vale il nero ammonimento delle cupe mamme langhiane: «Dovete aver cura dei vostri figli», sarebbe un errore immaginarlo banalmente rivolto alle famiglie delle vittime.

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mercoledì 29 ottobre 2003

Presentazione "Honkytonk Man"

Honkytonk Man

(USA 1982, col, 122’)

r.: Clint Eastwood

s., sc.: Clancy Carlile

f.: Bruce Surtees

mus.: Steve Dorff

scg.: Gary Moreno

m.: Ferris Webster, Michael Kelly, Joel Cox

int.: C. Eastwood, Kyle Eastwood, John McIntire

p.: Malpaso Company

Quasi un caso la benvenuta coincidenza di questa proiezione con l’uscita del nuovo grande film di Eastwood, Mystic River. Come per ogni suo lavoro, anche Honkytonk Man, a nostro avviso uno dei suoi lungometraggi più duri e poetici, ci racconta un’America che nell’ultimo ventennio pochissimi autori, e forse nessuno come Clint, ha avuto le capacità e il coraggio di affrontare. Il Dark Side della Nashville altmaniana, sfavillante di lustrini e intolleranza, il tempio del countrydenaro e dello stivale a punta, resta poco più di un miraggio per il cantautore Red Stovall (lo stesso Eastwood che realmente canta i brani del film). L’America dei vinti, della depressione, della malattia e dei sogni che non si realizzano, ci viene raccontata esplorando i luoghi del dolore e della miseria, attraverso la lunga agonia fisica ed esistenziale di Stovall che in extremis riuscirà ad incidere qualche brano prima di morire. Personaggio di certo contraddittorio, Clint Eastwood è oggi uno dei più grandi registi in attività che riesce a ritagliarsi spazi, unici e solitari, nella fogna cinematografica statunitense (la Malpaso Company è il marchio oggi indelebile delle produzioni eastwoodiane al di fuori dei meccanismi di dominio delle major hollywoodiane) dando spazio al consueto crudo lirismo a cui ci ha abituato sin dai tempi delle grandi prove attoriali pilotate dai suoi maestri (a cui tra l’altro dedicò Gli Spietati): Don Siegel e Sergio Leone.

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mercoledì 22 ottobre 2003

Presentazione "M, il mostro di Dusseldorf"

M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF

(Fritz Lang)

Regia: Fritz Lang. Sceneggiatura: Fritz Lang, Egon Jacobson e Thea von Harbou. Fotografia: Fritz Arno Warner. Montaggio: Paul Falkenberg accompagnato a tratti dal Peer Gynt di Edvard Grieg. Interpreti: Peter Lorre/Franz Becker, Ellen Widman/Madame Beckmann, Inge Landgut/Elsie Beckmann, Theodor Loos/Commisioner Groeber, Gustaf Grüdgens/Schraenker.

Produzione: Seymour Nebenzal.

Durata: 117’. Germania, 1931, b/n

Restauro: Germania 2000/99’ USA

Tra le migliori intuizioni di Françoise Truffaut di sicuro c’è l’aggettivo cucito addosso al cinema di Fritz Lang: inesorabile. Tutto ciò che si può arrivare a conoscere delle immagini in movimento è, in modi diversi, contenuto in questo film immenso. Possiamo solo continuare a rivederlo, giocando non senza paura con questo meccanismo perfetto e riscoprire le ipocrisie dell’uomo moderno, l’impossibilità di distinguere tra criminalità organizzata e polizia, ma soprattutto a spaventarci nella rivelazione ossessiva di come anche il peggiore dei mostri può arrivare ad apparire un agnellino di fronte all’uomo perbene. La versione proiettata è frutto di un restauro avvenuto nel 2000 che ci permette finalmente di vedere quest’opera integra.

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mercoledì 15 ottobre 2003

Presentazione "Il fantasma del palcoscenico"

IL FANTASMA DEL PALCOSCENICO

(Brian DePalma)

Regia, soggetto e sceneggiatura: Brian DePalma. Fotografia: Larry Pizel. Montaggio: Paul Hirsen. Musica: Paul Williams. Interpreti: P. Williams, W. Finley, G. Memmoli, O. Oraham, J. Harper

Produzione: Harbor Production

Durata: 92’. USA 1974, col

Secondo film di De Palma ospite di KinoGlaz. Non è un caso che, come per la scelta di proiettare lo scorso anno Mission to Mars, anche Phantom of the Paradise sia una delle opere che meno rispondono alle peculiarità, notoriamente e spesso splendidamente hitchockiane, dell’autore. Un episodio, un film che in qualche modo fa storia a sé divenendo inimitabile e per questo plurimitato, un anticapolavoro ante-litteram che detiene una grandezza proprio nei suoi sprechi, nella ferocia con cui difende il suo non mostrarsi indispensabile. In fondo è la dimensione di molti lavori di De Palma: l’imbarazzo costante di non essere Hitchcock o Hawks, il pudore di non dare completo fondo al proprio talento perché, anche consumatolo fino all’ultima goccia, la lontananza concreta e ideale dai maestri sarebbe comunque manifesto di un peso sgraziato e pretenzioso. Da qui il coraggio di giocare, con risultati non di rado stupefacenti come ribadito nell’ultimo Femme Fatale, e osare con momenti costantemente importanti della storia del cinema attraverso meccanismi maledettamente moderni incastonati in una tradizione dimenticata di spettacolarità. Ripetizione, citazione, sberleffo. Anche nel caso de Il fantasma del palcoscenico la tradizione non è quella dell’incolore romanzo di Gaston Leroux del 1911, ma il percorso sterminato di quel cinema dei mostri che ha segnato una traccia netta nel breve viaggio del cinema novecentesco. La banalità del tutto apparente del sostrato pop-rock (con le musiche scritte dallo stesso protagonista), l’esagerazione delle coreografie della futura Carrie (Sissy Spacek), il montaggio frenetico, la regia che fa di tutto per non farsi notare, hanno in fondo caratteristiche consimili al protagonista stesso (del libro, del film, di tanti film) del falso fantasma: vivo, vegeto, umano, mortale, condannato all’eterna autorappresentazione (discografici permettendo…).

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mercoledì 8 ottobre 2003

Presentazione "F for fake"

f for fake, Iran/Francia/RFT 1975, col, 85’

R., s, sc.: Orson Welles

f.: Christian Odasso, Gary Graver

m.: Marie-Sophie Dubus, Dominique Engerer

int.: Orson Welles, Oja Kodar, Francois Reichenbach, Joseph Cotten, Clifford Irving, Elmyr de Hory

p.: Saci/Les Film de l’Astrophore/Janus Film

L’inaugurazione del nuovo anno del cineforum si ripresenta con un film senza epigoni. Un’opera che da sola riesce a mostrare e inventare una storia dell’arte, capace di non tralasciare esibizioni e riflessioni sul mezzo veicolando elementari e imbarazzanti verità in grado di sgretolare le sovrastrutture stesse della cultura fino all’inevitabile scomparsa del creatore. «Sono un ciarlatano» ci dice Welles prima di confondere le carte fino a farle scomparire, mostrando un’ora di autenticità fatta di truffe, raggiri, bugie. Così uno dei più grandi affabulatori del secolo trascorso mantiene la sua prima promessa di veridicità dopo averci convinto dell’impossibilità dell’assunto stesso. Per raggiungere il fine ancora una volta arriva a utilizzare, in maniera completamente difforme dalle pellicole precedenti, la forma a lui più congeniale: il racconto. Prendendo spunto da un progetto iniziato dal documentarista Francois Reichenbach, presente nel film sia con le immagini da lui girate prima dell’avvicinamento di Welles che fisicamente, ci viene illustrata attraverso schegge impazzite comandate a bacchetta la vita ad Ibiza del falsario ungherese Elmyr de Hory. Specializzato nelle riproduzioni dei post-impressionisti, questo personaggio realmente esistito e presente nel film trascende la stessa creazione wellesiana, dimostrando come la realtà possa ridicolizzare l’arte e i suoi compatrioti. Con lui il falso biografo di Howard Huges, Clifford Irving, e la dolorosa disillusione di Welles che ripercorre tratti della sua osteggiata attività. Non è più il solito vecchio trucco del coniglio nella giarrettiera, la realtà nell’arte semplicemente non esiste e ciò di cui va preso atto è semplicemente la qualità del falso. È proprio questo tautologico gioco del ‘falso falsario’ che cristallizza l’ineccepibile verità contenuta nell’opera. Solo un’artista (tale anche perché riesce a convincerci dell’inesistenza di un creatore di opere in senso assoluto) come Orson Welles poteva arrivare al punto di non ritorno sull’argomento rivolgendo i mezzi espressivi contro se stessi. Da un lato convinte argomentazioni contro la banalità della tecnica («Nel cinema come in qualsiasi mestiere la tecnica si impara in quattro giorni»), dall’altro la capacità di confezionare opere di una complessità assoluta e abbagliante. Senza la profondità di campo o i piani sequenza che ci raccontano i manuali, F for fake imbarazza per un montaggio pirotecnico senza pari, frutto proprio dell’esaurimento della tecnica stessa. Ciò che spesso sfugge del film resta comunque il tempo della promessa iniziale di Welles. Un’ora di verità, e dopo? Scaduto l’intervallo il castello crolla nuovamente, «la foresta di pietra» di Chartres riempie l’immagine mentre la voce dell’attore, ancor prima che regista, ci pone di fronte al fatto compiuto, l’opera senza firma dell’immensa cattedrale circondata della nebbia (vera nebbia o mascherino?). Siamo tornati al cinema delle bugie che vogliamo sentirci raccontare per crederle vere e alle verità che più o meno volontariamente si ignorano, perdendosi nello spettacolo. Mentre le parole di fronte a Chartres rintoccano: «Forse il nome di un uomo non è così importante», l’ora è passata da un pezzo, il gioco è finito, tocca a noi e a nessun altro decidere se crederci oppure no, la certezza che abbiamo è la grandezza e l’autenticità dell’uomo e dell’attore, per i preziosi strumenti che ci consegna.


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