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mercoledì 23 aprile 2003

Presentazione "eXistenZ"

eXistenZ

(Canada-UK, 1998, col, 108’)

R.: David Cronenberg

sc.: David Cronenberg

f.: Peter Suschitsky

m.: Ronald Sanders

int.: Jennifer Jason Leigh, Jude Law,

Willem Dafoe, Ian Holm

p.: Alliance Picture INternational

Tra i pochi autori attivi che mai hanno smesso di ripetersi, mantenendo un rigore di volta in volta sempre più estremo e capace di sintetizzare una riflessione che più non distingue i modi di rappresentazione dai contenuti, David Cronenberg riveste un ruolo di primaria importanza nella cinematografia degli ultimi vent’anni. A confermarlo è stata ancora la sua ultima fatica, il raggelante Spider che segue di quattro anni il lungometraggio di questa sera. Il rapporto dell’uomo con il proprio corpo è il centro della relazione con una realtà divenuta più folle e incomprensibile del peggior incubo. L’accelerazione del progresso tecnologico e scientifico che viene venduto come una conquista dell’umanità capace di restituire libertà e benessere, è oggi uno delle tante migliorie per il controllo sulla schiavitù di una società che proprio con la realtà ha perso oramai ogni contatto e, come ci insegna il protagonista di Spider, tornare indietro significa dover affrontare un passato, anche nelle intimità degli affetti, assolutamente irriconoscibile. Dopo la televisione (Videodrome), la medicina (Inseparabili) e le automobili (Crash), il ‘videogioco’ eXistenZ affronta direttamente la virtualità della reale realtà e viceversa, da cui lo stesso Cronenberg, imprigionato in primis dalla sua sceneggiatura, cerca una via di fuga quasi disperata. Unico dato vero è proprio l’esistenza del ‘giocattolo’ di carne e ossa che ha sublimato definitivamente la percezione della tecnologia, divenendo parte stessa dei corpi se non corpo supremo sostenuto da un’evasione continua di una pratica cosciente della quotidianità che all’interno come all’esterno del film non esiste più per nessuno. Comune agli ultimi lungometraggi dell’autore è la freddezza della fotografia, utile a scavare un confine ancora invalicabile tra rappresentazione e fruizione, che mostra l’oggetto-film in quanto tale, ghiacciando le emozioni per sostenere lucidamente una riflessione sull’impossibilità stessa dello riconoscere le cose per quello che sono, tentando di mettere in discussione la stessa percezione di uno spettacolo che crediamo di vedere. A questo concorre un altro tratto fortemente distintivo di Cronenberg che riesce da solo a saldare le contraddizioni dell’incomprensibile: l’essenzialità chirurgica nell’uso della macchina da presa, ennesimo meccanismo incapace di definirsi e di mostrarsi, preciso nel sezionare l’indispensabile per annullare i contesti e rendere universale l’orrore di ciò che ci circonda: il primo passo che si può compiere attraverso la visione di eXistenZ è quello di riconoscerlo.

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mercoledì 16 aprile 2003

Presentazione "Pinocchio"

PINOCCHIO

OVVERO

LO SPETTACOLO DELLA PROVVIDENZA

(Italia 1999, col, 75’, tv)

Regia teatrale e televisiva, scene, maschere e costumi: Carmelo Bene

Sceneggiatura: Carmelo Bene dal romanzo di Collodi

Fotografia video: Gianni Caporali

Montaggio: Fabio Loli

Voci: Carmelo Bene, Sonia Bergamasco

Musiche: Gaetano Giani Leporini

Fonico: Andrea Macchia

Produzione: RAI in collaborazione con Nostra Signora S.r.l.

«Davvero, come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi. Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri: tutti, anche i Grilli parlanti. Ecco qui: perché io non ho dato retta a quell'uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai, Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte»

Bene per quattro volte a teatro (1961, 1966, 1981, 1998), una volta per radio (1981) e una volta in televisione (1998) ma, e non sarebbe stato possibile altrimenti, non ha nemmeno sfiorato la sua breve ed eccezionale parentesi cinematografica. Solo nel levarsi contro il mondo, il burattino-attore che vuole diventare bambino deve disfarsi delle oneste maniere, del buonismo del babbo-falegname, della falsa morale della fatina e dei ‘buoni consigli’ del grillo parlante. Ad essere burattini, fantocci senza metodo, sono infatti tutte queste ‘brave persone’ che ruotano intorno alle voci di un Pinocchio sin dall’inizio tragicamente più umano di ogni altra presenza. Un burattino per eccellenza anacronistica antiborghese, che non esita a sputare a Geppetto che come un fesso si è venduto la casacca per comprare un abbecedario del teatro che Carmelo Bene ha polverizzato sin dagli esordi. Lo stesso si può dire del contesto televisivo che toglie in un sol colpo qualsiasi spunto avventuroso del romanzo di Collodi. Poche scenografie e campi ravvicinati, nessuna azione compiuta fino in fondo, se non quella di inseguire il termine di una gamma vocale di toni inesauribile, fanno di questa versione del Pinocchio una molecola concentrata fino al collasso della poetica (d’attore, di scrittore, di regista, di compositore, di interprete) di uno tra i più grandi artisti del Novecento europeo.

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mercoledì 9 aprile 2003

Presentazione "Gangs of New York"

GANGS OF NEW YORK

(USA 2002, col, 170’)

R. : Martin Scorses

s.: Jay Cocks

sc.: Jay Cocks, Steven Zailland, Kenneth Lonergan

f.: Michael Balhaus

m.: Thelma Schoonmaker

int.: Leonardo Di Caprio, Daniel Day Lewis, Cameron Diaz, Liam Neeson

Il cinema di Scorsese da sempre ci ha messo di fronte al rapporto tra l’autore, le sue opere, e le referenze critiche e passionali di determinati film e registi. Elemento che ha fondato con gli anni un pertinente, e per nulla nascosto, discorso contemporaneo sulla messa in scena della cinefilia che ci riporta immediatamente alle sue origini pratiche e teoriche, la «Nouvelle Vague». La presenza di Camille di Gorge Delerue in Casinò è solo uno degli elementi che inseriscono l’opera di Scorsese nelle le maglie di un complesso reticolato fatto di citazioni e rimandi, suggestioni e memorie, passioni e lucidità poetica, che attraversa una delle storie del cinema, la sua.

Gangs of New York pur continuando a esibire, con precisa consapevolezza, il ruolo di consumato spettatore con cui Scorsese è solito frequentare la pratica della regia, segna contemporaneamente la volontà di una ricerca antropologica autocritica, che mira senza presunzioni a riflettere sul proprio passato artistico seguendo un percorso in cui una forma sottile di metalinguaggio si rivolta su se stessa per divenire contemporaneamente oggetto di riflessione. La stratificazione del suo cinema, dallo spettacolo che non tradisce la stessa passionalità dello Scorsese spettatore alla cinefilia più ricercata, mantiene inalterati i tratti stilistici che ci hanno permesso di identificare e riconoscere l’autore fino ad oggi. Proprio la prima inquadratura del film ci dà la possibilità di vedere all’opera questa tendenza. L’uomo che si rade ci riporta in un istante ad uno dei primi cortometraggi dell’autore (The big shave, 1967) che inserisce le immagini che andremo a scorgere alle radici del cinema dell’autore stesso. Così un’opera in costume estranea ad una qualsivoglia età dell’innocenza si popola con i goodfellas delle gangs che dipingono uno scenario, uno sfondo antistorico e spettacolare che determina la principale essenza del film. Sapientemente Scorsese spreca senza nascondersi il plot melodrammatico costituito dalla vendetta di Amsterdam e dalla sua improbabile storia d’amore. Pochi i momenti concessi ai due e spesso assolutamente ridimensionati o ridicolizzati (come la comparsa di Bill avvolto dalla bandiera americana dopo la prima notte che la coppia passa insieme). Ciò che l’autore sostiene è infatti una dimensione strettamente cinematografica, la genesi preoccupante di un paese che non si può distinguere dallo spettacolo consumato e costruito dalla ‘passione’ scorsesiana. Il trucco, l’artificio e l’approssimazione del ricostruito si manifestano in ogni momento, come le strade finte che vogliono farci sentire la cartapesta e divengono a loro volta nuovi contenitori spettacolari di teatri (dall’elisabettiano al teatro di posa) e di battaglie carnevalesche. Un film fatto di sporcizia, di violenza, di ignoranza, che segna la consistenza dell’immigrato totale nordamericano, la costituzione con la forza della patria impossibile e dell’intolleranza. Inoltre c’è la New York dal basso di Scorsese ricostruita a cinecittà, in fondo la stessa autentica di Mean Streets e Goodfellas, che arriva fino alla nascita del cinema per potersi permettere le poche dissolvenza con cui il film si conclude, mostrandoci in un istante svanire il Novecento della metropoli statunitense che non ha cambiato di molto la sua costituzione. Opera incompresa, indigesta per l’oltreoceano e snobbata in Europa, Gangs of New York crescerà di importanza negli anni, fino a divenire pietra fondante di una imponente cinematografia nazionale abituata a vendicarsi dei capolavori generati al suo interno. L ’America nasce dalle strade come il cinema di Rossellini.

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mercoledì 12 marzo 2003

Presentazione "Il fantasma della libertà"

IL FANTASMA DELLA LIBERTÀ
(Le fantôme de la liberté, Francia 1974, col, 103’)
R. s.: Luis Buñuel
sc.: Luis Buñuel, Jean-Claude Carriére
f.: Edmond Richard
m.: Hélène Plemiannikov
int.: Bernard Verley, Paul Frankeur, Milena Vukotic, Michel Piccoli
p.: Greenwich Film

«Omaggio discreto a Karl Marx» che nel titolo richiama il celeberrimo esordio del Manifesto, già evocato da un passaggio de La via lattea, questo film oltre ad essere uno dei preferiti del regista è anche una tra le sue opere più complesse, stupefacenti e ambiziose. Costruito da episodi totalmente inorganici, antinarrativi, quasi quadretti impazziti come schegge incontrollabili e letali di una società esplosa, Il fantasma della libertà ci riporta alla sintesi estrema, al grado zero della riflessione di Buñuel. L’azione e l’impulso annullano qualsiasi psicologismo, la messa in scena tende ad annullarsi, anch’essa vittima dell’infinito inseguimento di quello ‘spettro’ la cui assenza ci mostra il vero volto di una realtà alla deriva. Il surrealismo non è mai stato così concreto e naturalista. L’educazione delle ‘forze dell’ordine’, la mitomania della società borghese autolegittimata dalla condivisione collettiva della produzione di merda, l’invisibilità tangibile della sovversione infantile, l’esaltazione della massa per lo stragismo ingiustificabile come l’iniziale guerra di liberazione che farà gridare ai presunti ‘liberati’: «Viva le Catene!» (di cui gli USA stanno per darci un nuovo e infame esempio), non sono altro che le manifestazioni primarie e impulsive della deflagrazione, se preferite defecazione, dell’accumulo del consumo liberista: cieco, inorganico, irraccontabile, capace di creare e distruggere senza differenze di sorta. Certo ci si trova una perfetta continuità con i film dell’autore che fino ad oggi hanno attraversato il Cineforum: «A ripensarci oggi mi sembra che La via lattea, Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà, che sono nati da tre soggetti originali, formino una specie di trilogia, o meglio di un trittico, come nel Medioevo. Nei tre film si ritrovano gli stessi temi, a volte anche le stesse frasi. Parlando tutti e tre della ricerca della verità, che bisogna fuggire appena si crede di averla trovata, dell’implacabile rituale sociale. Parlano tutti e tre della ricerca indispensabile, del caso, della morale personale, del mistero che bisogna rispettare». Tutto ciò che resta sarà uno struzzo e il suo sguardo vuoto e desolante ci sembra tutt’oggi il più lucido e consapevole del deserto buñueliano. Uccidere lo struzzo e sovvertire sono le uniche armi che ci restano, basta usarle fino in fondo.

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Manifesto seconda stagione - II parte

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COPERTINA 2° CD


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mercoledì 20 novembre 2002

Presentazione "Paisà"

PAISÀ

(Italia, 1946, b/n, 125’)

R.: Roberto Rosselini

s: Victor Haines, Marcello Pagliero, Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini, Vasco Pratolini

sc.: Sergio Amidei, Roberto Rossellini, Federico Fellini

f.: Otello Martelli

mus.:Renzo Rossellini

m.: Eraldo Da Roma

int.: Carmela Sazio, Robert Van Loon, John Klitzmiller, Alfonsino, MariaMichi, Far Moore, Harriet White, Renzo Avanzo, Bill Tubbs, dale Edmonds

p.: OFI/Foreign film Production/Capitani Film

"Cerco di reagire contro la debolezza che rende gli uomini prigionieri volontari -per non dire vittime-, per vigliaccheria o incoscienza, del loro desiderio di essere in armonia con tutto e con tutti. Per idolatria della regola viviamo nel continuo terrore di diventare l’eccezione, perché siamo abituati ad identificare l’uomo di cui si parla con l’uomo di cui si parla male" (R. Rossellini). Paisà non è un film neorealista come, del resto, non lo è nessun opera di Rossellini. Eccezione per qualsivoglia etichetta o periodizzazione, l’immensa opera prima e unica riconoscibile solamente nella sua complessità, e nella sua ripetizione, di uno dei maggiori artisti italiani del ‘900 è immediata costruzione di un punto di vista, di un pensiero soggettivo che inchioda lo sguardo alle sue responsabilità. L’indeterminatezza spazio-temporale, la dispersione in frammenti narrativi che tornano sul conflitto appena concluso, la regia spaziosa che si carica di elementi e personaggi forzatamente casuali, si adagiano su di un’aspirale che nella sua accelerazione conduce alla brutalità e ai silenzi dell’ultimo episodio (una delle più belle pagine di cinema di tutti i tempi). Immagini, quelle di Porto Tolle, che nella loro disperata voce, non ascoltata all’interno del film, si rivolgono a noi. Nella situazione più difficile di una morte senza lamenti, siamo costretti all’eversione, allo slancio creativo che costringe a una scelta; far finta di non vedere oppure credere a questo mondo, alle azioni e ai modi che possono cambiarlo per far sì che le acque del Po non si richiudano su se stesse, cancellando la lotta e la memoria.

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mercoledì 6 novembre 2002

Presentazione "Senso"

SENSO

(Italia 1954, col, 115’)

R.: Luchino Visconti

sc.: Luchino Visconti dal racconto di Camillo Boito

f.: G. R., Aldo, Robert Krasker

mus.: Giuseppe Verdi, Anton Bruckner

m.: Mario Serandrei

int.: Alida Valli, Farley Granger, Massimo Girotti, Heinz Moog, Rina Morelli, Marcella Mariani

p.: Lux Film

Opera cardine per la fine del ‘cosiddetto neoralismo’, Senso è un complesso contenitore scenico che esalta in maniere differenti argomenti e tratti stilistici assai distanti dalla realtà, storica e cinematografica, dell’epoca. L’Italia risorgimentale, ricostruita tra melodramma e riferimenti pittorici, accoglie nello sfarzo consumato dell’ambientazione viscontiana un’inquieta dispersione dai due volti. La dimensione intima e soggettiva dei protagonisti, che si muovono in maniera autonoma e inconsapevole nella riedificazione storica, è specchio di un’immagine dilaniata dall’estraneità di una società che ignara ripetutamente la propria presenza. I sentimenti divengono facili e incomprensibili. La politica e la guerra sibilano silenziosi come un sottofondo, soffocati dal vano e debole inseguimento di una vaga tensione personale. Un film ‘bello’, ancora eccezionalmente seducente, che proprio per la sua vistosità restituisce il senso macabro dell’abbandono, la paura di rimanere al di fuori del mondo, al di fuori di sè.

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