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mercoledì 6 marzo 2002

Manifesto terza rassegna

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mercoledì 27 febbraio 2002

Presentazione "Il ladro"

IL LADRO (The wrong man)

Regia: Alfred Hitchcock. Soggetto: Maxwell Anderson (dal suo racconto The true story of Emmanuel Balestrero). Sceneggiatura: Maxwell Anderson e Angus McPhail. Fotografia: Robert Burks. Scenografia: Paul Sylbert e William L. Kuehl. Musica: Bernard Herrmann. Montaggio: George Tomasini. Interpreti: Henry Fonda (Christopher Emmanuel Balestriero, “Manny”), Vera Miles (Rose, sua moglie), Anthony Quayle (O’Connor), Charles Cooper (il detective Matthews), Richard Robbins (Daniel, il colpevole), John Heldabrant (Tomasini). Produzione: A. Hitchcock (Warner Bros). Durata: 105’. USA, 1956.

The wrong man, ovvero un uomo che per sbaglio si ritrova colpevole di reati mai commessi.

All’inizio del film, è Hitchcock stesso a presentare questa storia come un fatto realmente accaduto.

New York 1953.

Un evento imprevisto sconvolge l’ordine della vita del protagonista. Inizia così l’itinerario di Emmanuel Balestrero. La casualità, supremo pericolo, irrompe nel tranquillo universo borghese per sconfiggerne ogni principio di sicurezza. Il flusso ripetitivo dei gesti e dei fatti quotidiani si disgrega insieme all’illusione di aver conquistato una dimensione inattaccabile e sicura. Come altri eroi hitchcockiani, Emmanuel si crede immune e estraneo alla violenza, alla morte, all’ingiustizia. La rottura dell’ordine operata dal caso lo porta invece a dover affrontare e accettare l’inevitabile precarietà e disarmonia di ciò che lo circonda. Non sempre è possibile allontanare e rimuovere facendo finta che tutto vada per il verso giusto.

Se però altri personaggi hitchcockiani prendono di petto la sfida lanciata loro dal caso, agendo attivamente per non subire la cattiva sorte, Emmanuel segue impotente il corso degli avvenimenti, lasciandosi trascinare senza ribellarsi. Sembra non voler capire che ciò che gli viene ripetuto dal poliziotto (“Un innocente non ha mai nulla da temere”) non può essere che un’enorme menzogna propinata dalle istituzioni.

Alla fine il presunto colpevole paga a caro prezzo il riconoscimento della sua innocenza. La follia della moglie distrugge l’armonia che pareva ristabilita. L’ultima ritratto della famigliola felice a spasso sui viali alberati e soleggiati della Florida è talmente stereotipato che svela l’ipocrisia di ciò che mostra. Hitchcock sceglie di restare a distanza, riprendendo il quadretto da lontano, come se temesse di mettere a fuoco la tragica sorte dei suoi protagonisti.

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Manifesto "Il ladro"

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mercoledì 20 febbraio 2002

Presentazione "Un condannato a morte è fuggito"

UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO (Francia 1956)

Un Condamné à mort s'est échapé

R.: Robert Bresson

s.: dal racconto di André Devigny

sc.: Robert Bresson

f.: Léonce-Henry Burel

mus.: Wolfang Amadeus Mozart

scg.: Pierre Charbonnier

m.: Raymond Lamy

int.: Françoise Leterrier, Roland Monod, Jacques Ertaud, Charles Le Clainche, Maurice Beerblock;

p.: Société Nouvelle des Etablissements Gaumont/Nouvelles Editions de Film

Forse una delle evasioni più scontate con cui è possibile imbattersi. Banale, ovvia, che nell'esito e nella riuscita non ha in realtà nulla da dirci. A partire da un titolo che tutto svela e non lascia il tempo di dubitare, lo spettatore non può perdere tempo dietro ai giochetti della suspence. Fontaine fuggirà. Escluso il prologo dove il protagonista 'ci prova' d'istinto (quasi che il miraggio concreto della libertà sia veramente a portata di mano per tutti), il film è interamente girato nel carcere nazista di Lione. Lo scetticismo negato intorno ad una possibile Liberazione, in cui l'azione di un condannato a morte Resistente non ci mostra l'eccezione ma un punto di partenza, uno stato d'animo sempre sicuro di non poter più che vincere, mette Bresson in condizione di poter rendere l'operazione più rischiosa e stupefacente (l'evasione) come un gesto semplice. Quindi la minuzia di Fontaine che pare una formica a volte annoiata per quei piccoli lavoretti artigianali necessari per preparare la fuga. L'insistenza sull'indispensabilità e l'importanza del lavoro metodico e 'autoregolato' ci viene anch'esso mostrato come un'altra condizione banalmente determinante per poter finalmente cominciare ad agire e a pensare al di fuori delle mura che ci hanno costruito intorno. Il volto di Fontaine ha quasi perso espressività e sentimenti, tutto della sua persona è concentrato sull'azione, sull'analisi. Poi i compagni, entrambi indispensabili, sia nel fallimento che nell'aiuto. Un'opera che il tempo ed il mercato non potranno travisare è ancora lì a raccontarci come Fontaine continuerà a scappare ogni istante da tutti i carceri. La sua azione di Resistenza al di fuori di essi è nelle nostre mani.

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Manifesto "Un condannato a morte è fuggito"

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mercoledì 13 febbraio 2002

Manifesto "La grande illusione"

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mercoledì 6 febbraio 2002

Presentazione "Il buco"

Il buco (Le trou)

di Jacques Becker, Francia 1959

Da un romanzo di Jose Giovanni adattato per lo schermo da Jacques Becker, Jose Giovanni, Jean Aurel. Dialoghi:Jacques Becker, Jose Giovanni. Interpreti: Michel Constantin (Geo), Jean Keraudy (Roland), Raymond Meunier (Monsignore), Philippe Leroy (Manu), Mark Michel (Gaspard). Fotografia: Ghislain Cloquet. Scenografia: Rino Mondellini. Montaggio: Marguerite Renoir, Geneviéve Vaury. Una coproduzione italo-francese: Titanus, Playart, Filmsonor. Produttore esecutivo: Serge Silberman. Durata: 1h55


In piena esplosione del fenomeno nouvelle vague (il 1959 è l’anno de I quattrocento colpi e Hiroshima mon amour) Jacques Becker realizza il suo tredicesimo e ultimo lavoro (gravemente malato, morì appena prima dell’uscita del film). Poco conosciuto in Italia e mai (per fortuna) realmente rivalutato dalla critica ufficiale, Becker rappresenta un po’ la sintesi fra classicismo e modernità del cinema francese al suo grado più elevato. Le sue ultime opere, e Il buco in particolare, sono come sospese in una temporalità altra che, astraendo il contesto a favore di una narrazione tradizionale, riduce i meccanismi dei rapporti interpersonali ai minimi termini, quasi trasformandoli in paradigmi, esemplificazioni di dinamiche sociali comuni.

Il buco, prima di essere un film sulle carceri, è un film sulla libertà, dunque su un concetto, o meglio ancora su un immaginario. La bellezza del film e l’arte di Becker si danno nel momento in cui l’idea si trasforma in azione concreta, in lotta collettiva. Come più o meno scriveva Serge Daney, i detenuti – gli unici protagonisti del film - sembrano combattere meno per la loro libertà individuale che per una ideale libertà universale. E questo avviene nel divenire del film, nello scorrere del tempo, quando finalmente lo spettatore comprende che non si tratta tanto di scoprire se i detenuti vinceranno o perderanno la loro battaglia, quanto capire che ciò che davvero conta è che i detenuti stanno vincendo.

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mercoledì 5 dicembre 2001

Presentazione "Gangster Story"

Gangster story
(Bonnie and Clyde)

Regia: Arthur Penn

Sceneggiatura: David Newman, Robert Benton

Direttore della fotografia: Burnett Guffey

Scenografia: Dean Tavoularis, Raymond Paul

Musica: Charles Strouse

Canzoni: Foggy Mountain Breakdown (Flatt and Scruggs), Night Wind, The Shadow Waltz, One Hour with You: Eric Weissberg con la sua chitarra. Ginger Rogers canta We’re in the Money in uno spezzone di Gold Diggers of 1933

Montaggio: Dede Allen

Costumi: Theodora Van Runkle, Andy Maatyasi, Norma Brown

Effetti speciali: Danny Lee

Interpreti: Warren Beatty (Clyde Barrow), Faye Dunaway (Bonnie Parker), Michael J. Pollard (C.W. Moss), Gene Hackman (Buck Barrow), Estelle Parsons (Blanche Barrow), Denver Pyle (sceriffo Frank Hamer), Dub Taylor (Ivan Moss), Evans Evans (Velma Davis), James Stiver (il padrone della drogheria), Gene Wilder (Eugene Grizzard, l’ostaggio)

Produzione: Warren Beatty per Warner Bros (Tatira/Hiller Production)

Distribuzione: Warner/Seven Arts

Origine: USA (presentato nel luglio 1967)

Durata: 111’

Girato in gran parte a Dallas, Texas. 2 Oscar nel 1967: migliore attrice non protagonista (Estelle Parsons) e migliore fotografia (Burnett Guffey).

Bonnie e Clyde, due banditi in rivolta contro l’ipocrisia di un mondo perbenista, appiattito dalla tranquillità imposta dall’ordine costituito. Due fuorilegge lontani dalla criminalità organizzata delle metropoli, anche se di questa assumono molti stereotipi, ma piuttosto vicini a quei cowboys in costante movimento attraverso gli spazi aperti del far west americano. I cavalli vengono sostituiti da auto veloci e scattanti. Le diligenze e i saloon, dalle banche e dai drugstores. Delle bande metropolitane in guerra contro il proibizionismo imposto dal governo, Bonnie e Clyde imitano le movenze, l’abbigliamento, la gestualità. L’estetica di un Al Capone è tuttavia inserita in un contesto totalmente diverso, tanto che spesso questa riproduzione ne mostra i limiti e le contraddizioni.

La selvaggia disperazione dei due banditi affonda infatti le sue radici nelle terre puritane del sud e del midwest degli Stati Uniti d’America, società costretta nella normalità, in cui il minimo slancio anticonformista può rappresentare per l’istituzione una rivoluzione tale da necessitare una repressione violenta e esemplare. La gente del sud, ridotta alla povertà dalla Depressione, viene sradicata dalle sue terre e si vede la propria casa venir confiscata dalle banche. E’ questa desolazione sociale e esistenziale a far da sfondo alla scelta di una vita nell’illegalità e nella clandestinità assunta dalla coppia. Scelta che se nasce per un incontro casuale dei due, diventa ben presto una scelta morale, fuori dai canoni voluti dalla società. Il viaggio non è dunque solo fuga, ma occasione di crescita personale e di presa di coscienza per i due personaggi. Bonnie e Clyde non scappano solo dalla polizia, ma anche dalla vita che qualcuno avrebbe voluto per loro, assumendosi tutti i rischi che questo atto comporta. Anche la morte, morte che arriva per un’infame delazione.

Bonnie e Clyde diventano così parte del mito, entrando con forza nell’immaginario collettivo. Accade che sia la morte a determinare il passaggio definitivo dell’uomo dalla realtà alla leggenda. Qui la costruzione del mito si avvia con gli eroi ancora in vita; le istituzioni (la polizia, le contee, la stampa) avviano un processo di mitizzazione attribuendo alla coppia reati che essa non ha compiuto. La polizia enfatizza e mistifica a tal punto le azioni dei due banditi, che nemmeno loro riusciranno a riconoscersi nelle descrizioni offerte dai giornali. Clyde si renderà conto di essere un fuorilegge da ciò che scrive la stampa, ma purtroppo si accorgerà di averlo capito troppo tardi.

I due banditi diventano figure leggendarie nel corso del film (nel corso della loro esistenza), cosicché la morte non fa che suggellare e rendere eterno qualcosa che era già parte della vita. Il film, con immagini evanescenti e sfuocate di un ricordo che fatica a tornare, riproduce la realtà di un mito, posando il suo sguardo su una vita che mentre si fa, diventa leggenda. L’esistenza, resa eterna nel suo divenire mito, moltiplica grazie al cinema le sue potenzialità di memoria. Così la morte, che violentemente rallentata sembra non finire mai per poter diventare infinita.

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