mercoledì 28 maggio 2003
mercoledì 14 maggio 2003
Presentazione "I figli della violenza"
I FIGLI DELLA VIOLENZA
(Los olvidados, Messico, 1950, b/n, 86’)
R.: Luis Buñuel
s., sc.: Luis Buñuel, Luis Alcoriza
f.: Gabriel Figueroa
m.: Carlos Savage
int.: Estela Inda, Miguel Inclàn, Alfonso Mejia, Roberto Cobo
p.: Ultramar Films
Ancora Buñuel. Questa volta la proiezione è dedicata ad una delle sue opere maggiormente realiste che per nulla tradiscono la violenza con cui l’autore spagnolo è costretto a mostrarci il mondo. Anzi, se il grottesco delle implicazioni più o meno surrealiste di molti suoi film riportavano la critica sociale ad una dimensione strettamente intellettuale (ma perfettamente intelleggibile), in Los olvidados come in Las Hurdes la brutalità del capitalismo contro chi non ne fa parte, le sue vittime più facili e lontane, viene esaltata da una rappresentazione esasperante e concreta. L’esordio con il cuore borghese delle capitali-confetto diviene il preludio per una discesa all’inferno in cui la lotta per la sopravvivenza non lascia speranze di sopravvivenza se non nella disperazione di una ‘legge della giungla’ a cui viene sistematicamente proibito di relazionarsi con la società. Le periferie di Città del Messico sono un microcosmo esemplare degli olvidados (dimenticati) di tutto il pianeta. Un film che colpisce duro ancora oggi e sembra non dare vie d’uscita per l’assenza totale di presenze positive, per l’impossibilità di nutrire affetti o speranze per un futuro che non va oltre la morte del giorno dopo. Anche la famiglia, in molte opere di Buñuel uno dei cardini della culla borghese globale, diviene meccanismo di propagazione dello sfruttamento e della violenza. Mai il regista spagnolo è stato così immediato nell’individuare le barbarie generate da quella stretta minoranza che, nella più sponsorizzata delle corse all’accumulo, vuole imporre oggi come cinquanta anni fa l’autodistruzione di milioni di olvidados.
mercoledì 23 aprile 2003
Presentazione "eXistenZ"
eXistenZ
(Canada-UK, 1998, col,
R.: David Cronenberg
sc.: David Cronenberg
f.: Peter Suschitsky
m.: Ronald Sanders
int.: Jennifer Jason Leigh, Jude Law,
Willem Dafoe, Ian Holm
p.: Alliance Picture INternational
Tra i pochi autori attivi che mai hanno smesso di ripetersi, mantenendo un rigore di volta in volta sempre più estremo e capace di sintetizzare una riflessione che più non distingue i modi di rappresentazione dai contenuti, David Cronenberg riveste un ruolo di primaria importanza nella cinematografia degli ultimi vent’anni. A confermarlo è stata ancora la sua ultima fatica, il raggelante Spider che segue di quattro anni il lungometraggio di questa sera. Il rapporto dell’uomo con il proprio corpo è il centro della relazione con una realtà divenuta più folle e incomprensibile del peggior incubo. L’accelerazione del progresso tecnologico e scientifico che viene venduto come una conquista dell’umanità capace di restituire libertà e benessere, è oggi uno delle tante migliorie per il controllo sulla schiavitù di una società che proprio con la realtà ha perso oramai ogni contatto e, come ci insegna il protagonista di Spider, tornare indietro significa dover affrontare un passato, anche nelle intimità degli affetti, assolutamente irriconoscibile. Dopo la televisione (Videodrome), la medicina (Inseparabili) e le automobili (Crash), il ‘videogioco’ eXistenZ affronta direttamente la virtualità della reale realtà e viceversa, da cui lo stesso Cronenberg, imprigionato in primis dalla sua sceneggiatura, cerca una via di fuga quasi disperata. Unico dato vero è proprio l’esistenza del ‘giocattolo’ di carne e ossa che ha sublimato definitivamente la percezione della tecnologia, divenendo parte stessa dei corpi se non corpo supremo sostenuto da un’evasione continua di una pratica cosciente della quotidianità che all’interno come all’esterno del film non esiste più per nessuno. Comune agli ultimi lungometraggi dell’autore è la freddezza della fotografia, utile a scavare un confine ancora invalicabile tra rappresentazione e fruizione, che mostra l’oggetto-film in quanto tale, ghiacciando le emozioni per sostenere lucidamente una riflessione sull’impossibilità stessa dello riconoscere le cose per quello che sono, tentando di mettere in discussione la stessa percezione di uno spettacolo che crediamo di vedere. A questo concorre un altro tratto fortemente distintivo di Cronenberg che riesce da solo a saldare le contraddizioni dell’incomprensibile: l’essenzialità chirurgica nell’uso della macchina da presa, ennesimo meccanismo incapace di definirsi e di mostrarsi, preciso nel sezionare l’indispensabile per annullare i contesti e rendere universale l’orrore di ciò che ci circonda: il primo passo che si può compiere attraverso la visione di eXistenZ è quello di riconoscerlo.
mercoledì 16 aprile 2003
Presentazione "Pinocchio"
PINOCCHIO
OVVERO
LO SPETTACOLO DELLA PROVVIDENZA
(Italia 1999, col, 75’, tv)
Regia teatrale e televisiva, scene, maschere e costumi: Carmelo Bene
Sceneggiatura: Carmelo Bene dal romanzo di Collodi
Fotografia video: Gianni Caporali
Montaggio: Fabio Loli
Voci: Carmelo Bene, Sonia Bergamasco
Musiche: Gaetano Giani Leporini
Fonico: Andrea Macchia
Produzione: RAI in collaborazione con Nostra Signora S.r.l.
«Davvero, come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi. Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri: tutti, anche i Grilli parlanti. Ecco qui: perché io non ho dato retta a quell'uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai, Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte»
Bene per quattro volte a teatro (1961, 1966, 1981, 1998), una volta per radio (1981) e una volta in televisione (1998) ma, e non sarebbe stato possibile altrimenti, non ha nemmeno sfiorato la sua breve ed eccezionale parentesi cinematografica. Solo nel levarsi contro il mondo, il burattino-attore che vuole diventare bambino deve disfarsi delle oneste maniere, del buonismo del babbo-falegname, della falsa morale della fatina e dei ‘buoni consigli’ del grillo parlante. Ad essere burattini, fantocci senza metodo, sono infatti tutte queste ‘brave persone’ che ruotano intorno alle voci di un Pinocchio sin dall’inizio tragicamente più umano di ogni altra presenza. Un burattino per eccellenza anacronistica antiborghese, che non esita a sputare a Geppetto che come un fesso si è venduto la casacca per comprare un abbecedario del teatro che Carmelo Bene ha polverizzato sin dagli esordi. Lo stesso si può dire del contesto televisivo che toglie in un sol colpo qualsiasi spunto avventuroso del romanzo di Collodi. Poche scenografie e campi ravvicinati, nessuna azione compiuta fino in fondo, se non quella di inseguire il termine di una gamma vocale di toni inesauribile, fanno di questa versione del Pinocchio una molecola concentrata fino al collasso della poetica (d’attore, di scrittore, di regista, di compositore, di interprete) di uno tra i più grandi artisti del Novecento europeo.
mercoledì 9 aprile 2003
Presentazione "Gangs of New York"
GANGS OF NEW YORK
(USA 2002, col, 170’)
R. : Martin Scorses
s.: Jay Cocks
sc.: Jay Cocks, Steven Zailland, Kenneth Lonergan
f.: Michael Balhaus
m.: Thelma Schoonmaker
int.: Leonardo Di Caprio, Daniel Day Lewis, Cameron Diaz, Liam Neeson
Il cinema di Scorsese da sempre ci ha messo di fronte al rapporto tra l’autore, le sue opere, e le referenze critiche e passionali di determinati film e registi. Elemento che ha fondato con gli anni un pertinente, e per nulla nascosto, discorso contemporaneo sulla messa in scena della cinefilia che ci riporta immediatamente alle sue origini pratiche e teoriche, la «Nouvelle Vague». La presenza di Camille di Gorge Delerue in Casinò è solo uno degli elementi che inseriscono l’opera di Scorsese nelle le maglie di un complesso reticolato fatto di citazioni e rimandi, suggestioni e memorie, passioni e lucidità poetica, che attraversa una delle storie del cinema, la sua.
Gangs of New York pur continuando a esibire, con precisa consapevolezza, il ruolo di consumato spettatore con cui Scorsese è solito frequentare la pratica della regia, segna contemporaneamente la volontà di una ricerca antropologica autocritica, che mira senza presunzioni a riflettere sul proprio passato artistico seguendo un percorso in cui una forma sottile di metalinguaggio si rivolta su se stessa per divenire contemporaneamente oggetto di riflessione. La stratificazione del suo cinema, dallo spettacolo che non tradisce la stessa passionalità dello Scorsese spettatore alla cinefilia più ricercata, mantiene inalterati i tratti stilistici che ci hanno permesso di identificare e riconoscere l’autore fino ad oggi. Proprio la prima inquadratura del film ci dà la possibilità di vedere all’opera questa tendenza. L’uomo che si rade ci riporta in un istante ad uno dei primi cortometraggi dell’autore (The big shave, 1967) che inserisce le immagini che andremo a scorgere alle radici del cinema dell’autore stesso. Così un’opera in costume estranea ad una qualsivoglia età dell’innocenza si popola con i goodfellas delle gangs che dipingono uno scenario, uno sfondo antistorico e spettacolare che determina la principale essenza del film. Sapientemente Scorsese spreca senza nascondersi il plot melodrammatico costituito dalla vendetta di Amsterdam e dalla sua improbabile storia d’amore. Pochi i momenti concessi ai due e spesso assolutamente ridimensionati o ridicolizzati (come la comparsa di Bill avvolto dalla bandiera americana dopo la prima notte che la coppia passa insieme). Ciò che l’autore sostiene è infatti una dimensione strettamente cinematografica, la genesi preoccupante di un paese che non si può distinguere dallo spettacolo consumato e costruito dalla ‘passione’ scorsesiana. Il trucco, l’artificio e l’approssimazione del ricostruito si manifestano in ogni momento, come le strade finte che vogliono farci sentire la cartapesta e divengono a loro volta nuovi contenitori spettacolari di teatri (dall’elisabettiano al teatro di posa) e di battaglie carnevalesche. Un film fatto di sporcizia, di violenza, di ignoranza, che segna la consistenza dell’immigrato totale nordamericano, la costituzione con la forza della patria impossibile e dell’intolleranza. Inoltre c’è
mercoledì 12 marzo 2003
Presentazione "Il fantasma della libertà"
IL FANTASMA DELLA LIBERTÀ
(Le fantôme de la liberté, Francia 1974, col, 103’)
R. s.: Luis Buñuel
sc.: Luis Buñuel, Jean-Claude Carriére
f.: Edmond Richard
m.: Hélène Plemiannikov
int.: Bernard Verley, Paul Frankeur, Milena Vukotic, Michel Piccoli
p.: Greenwich Film
«Omaggio discreto a Karl Marx» che nel titolo richiama il celeberrimo esordio del Manifesto, già evocato da un passaggio de La via lattea, questo film oltre ad essere uno dei preferiti del regista è anche una tra le sue opere più complesse, stupefacenti e ambiziose. Costruito da episodi totalmente inorganici, antinarrativi, quasi quadretti impazziti come schegge incontrollabili e letali di una società esplosa, Il fantasma della libertà ci riporta alla sintesi estrema, al grado zero della riflessione di Buñuel. L’azione e l’impulso annullano qualsiasi psicologismo, la messa in scena tende ad annullarsi, anch’essa vittima dell’infinito inseguimento di quello ‘spettro’ la cui assenza ci mostra il vero volto di una realtà alla deriva. Il surrealismo non è mai stato così concreto e naturalista. L’educazione delle ‘forze dell’ordine’, la mitomania della società borghese autolegittimata dalla condivisione collettiva della produzione di merda, l’invisibilità tangibile della sovversione infantile, l’esaltazione della massa per lo stragismo ingiustificabile come l’iniziale guerra di liberazione che farà gridare ai presunti ‘liberati’: «Viva le Catene!» (di cui gli USA stanno per darci un nuovo e infame esempio), non sono altro che le manifestazioni primarie e impulsive della deflagrazione, se preferite defecazione, dell’accumulo del consumo liberista: cieco, inorganico, irraccontabile, capace di creare e distruggere senza differenze di sorta. Certo ci si trova una perfetta continuità con i film dell’autore che fino ad oggi hanno attraversato il Cineforum: «A ripensarci oggi mi sembra che La via lattea, Il fascino discreto della borghesia, Il fantasma della libertà, che sono nati da tre soggetti originali, formino una specie di trilogia, o meglio di un trittico, come nel Medioevo. Nei tre film si ritrovano gli stessi temi, a volte anche le stesse frasi. Parlando tutti e tre della ricerca della verità, che bisogna fuggire appena si crede di averla trovata, dell’implacabile rituale sociale. Parlano tutti e tre della ricerca indispensabile, del caso, della morale personale, del mistero che bisogna rispettare». Tutto ciò che resta sarà uno struzzo e il suo sguardo vuoto e desolante ci sembra tutt’oggi il più lucido e consapevole del deserto buñueliano. Uccidere lo struzzo e sovvertire sono le uniche armi che ci restano, basta usarle fino in fondo.