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mercoledì 25 maggio 2005

Presentazione "Milano calibro 9"

MILANO CALIBRO 9

di Fernando di Leo Italia, 1972

Chiudiamo il ciclo “Generi del cinema popolare italiano” con quello che è il più interessante dei quattro film da noi proposti, Milano calibro 9 di Fernando di Leo. La trama prende spunto da alcuni racconti di Giorgio Scerbanenco (contenuti nella raccolta appunto intitolata Milano calibro 9), rielaborati e adattati per lo schermo dallo stesso di Leo. Ugo Piazza (questo il nome del protagonista, interpretato da Gastone Moschin) è un malavitoso accusato, sia dalla polizia che dalla sua stessa banda, di avere rubato e poi nascosto 300.000 dollari al boss per il quale lavorava. Da qui si snoderanno tutta una serie di intrighi, relazioni e colpi di scena che porteranno al violento e tragico epilogo della storia.

Modello di riferimento dichiarato sono i film di Jean-Pierre Melville, il regista francese che molto umilmente di Leo considerava troppo importante e inavvicinabile per essergli accostato, rispetto ai quali tuttavia Milano calibro 9 riesce spesso a non sfigurare. Pensiamo ai titoli di testa (una Milano invernale ripresa alle prime luci dell’alba), alle sequenze alla stazione centrale, all’incontro di Ugo con Chino e altri momenti del film, che in quanto a atmosfera e malinconia non hanno nulla da invidiare ai personaggi e alla Parigi di Le Samourai e Un flic; ancora rispetto a Melville, più che gli aspetti dell’amicizia e del fatalismo, in una certa misura presenti anche nel film di Fernado di Leo, in Milano calibro 9 emergono maggiormente i temi dell’intelligenza e della fedeltà, immersi in un contesto di spietata violenza criminale, che permette al film di non scivolare sul piano di un facile e schematico moralismo. Per questo Ugo Piazza può risultare a seconda delle interpretazioni un cinico, un semplice ladro e assassino, un eroe, un antieroe, uno stupido ecc. Non mancano le cadute di stile (il personaggio del poliziotto di sinistra, le furibonde sparatorie dalle quali si esce illesi, una caratterizzazione dei personaggi femminili – questa sì – di serie b), che possiamo dire tutto sommato assenti nei film di Melville, ma l’intensità emotiva che i personaggi riescono a comunicare, l’ottima direzione degli attori, la forza della storia raccontata, le splendide musiche di Luis Bacalov eseguite dagli Osanna (per rimanere soltanto sul piano di consumo immediato del prodotto), fanno di questo film il migliore esempio di noir italiano che ci venga in mente.

Non ci risultano altre prove di questo livello da parte di altri registi italiani, e certamente non è un caso. Il noir, per quanto e in quanto fortemente codificato, resta il genere cinematografico che più si avvicina alla tragedia greca classica. Affrontarlo con superficialità non potrebbe che portare a risultati imbarazzanti. È principalmente per questo motivo che secondo noi Milano calibro 9 è rimasto un caso quasi isolato all’interno del cinema popolare italiano. Per lo stesso motivo non deve perciò stupire che a inaugurare un nuovo e ricco filone sarà, nello stesso anno, un altro film: La polizia ringrazia, di Stefano Vanzina, capostipite di quello che verrà in seguito definito poliziottesco, ovvero il cinema poliziesco all’italiana.

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mercoledì 4 maggio 2005

Presentazione della rassegna "Generi del cinema popolare italiano"

SUL CINEMA POPOLARE ITALIANO


L’ultima mostra di Venezia, quella del 2004, si era – fra le altre cose – caratterizzata per avere dedicato una retrospettiva al cinema italiano di genere degli anni Settanta. Pur senza entrare nel merito di quella specifica proposta, ci interessa qui constatare che oggi quei film, all’epoca certamente disprezzati dalla maggior parte dei critici che ora li esaltano, dopo 30 anni ha finalmente superato – se così si può dire – “l’esame” della critica, e può perciò legittimamente diventare oggetto di dibattito e studio anche in ambiti “seri” (istituzionali), quelli delle accademie, dei musei, dei festival appunto.

Anche noi del Kino Glaz cineforum abbiamo deciso di proporre una serie di film di quel periodo, così particolare per la storia di questo paese, per un motivo abbastanza semplice: secondo noi questi film rappresentano l’ultimo esempio in occidente, seppur con evidenti limiti, di cinema realmente (verrebbe da dire, anche se il termine non ci piace, autenticamente) popolare, intendendo in primo luogo con questo aggettivo quei film destinati a un pubblico il più possibile vasto, eterogeneo e senza pretese, se non quella di non rimpiangere i soldi spesi per il biglietto; in secondo luogo, ed è quello che fa la differenza fra un film di Mario Bava e uno con Alvaro Vitali, film realizzati da persone che, oltre ad amare profondamente (nella maggior parte dei casi) il loro lavoro, erano obbligate a rispettare con pochi soldi degli standard qualitativi molto elevati che oggi nemmeno le maxiproduzioni (vedi Benigni) riescono più a raggiungere. Questo perché, detto banalmente, il confronto tra film e film era tutto interno al cinema.

Dalla metà degli anni Settanta, lentamente ma inesorabilmente, il cinema di genere comincerà a tramontare, e progressivamente sempre meno gente si recherà in sala. L’immaginario delle persone si restringerà alle dimensioni dello schermo televisivo (all’epoca Drive-in e Dallas, oggi Zelig e Perlasca) al punto che il destino riservato ai film che abbiamo messo in programma in questo ciclo (che, è importante sottolinearlo, all’epoca furono visti al cinema da milioni e milioni di persone, e non certo da pochi “intellettuali”) è ancora una volta quello, inoffensivo e celebrativo, del museo.

Ci vogliono molta immaginazione e ottimismo per pensare oggi che una persona che veda in televisione i titoli di testa virati seppia di “Cosa avete fatto a Solange?” non cambi immediatamente canale per controllare che il televisore non si sia rotto, eppure è proprio questo che succede (non è una battuta). Succede cioè che persino il cinema di serie B, in quanto ancora costruito sfruttando meccanismi espressivi del mezzo cinema, a cui doveva necessariamente rendere conto, spiazza lo spettatore privo di memoria. Non bisogna però credere che si tratti di una sorta di dialettica tra linguaggi vecchi (il cinema) che cedono il passo a linguaggi nuovi (la televisione); si tratta piuttosto dell’impoverimento e di quella che potremmo chiamare desemantizzazione della lingua delle immagini in movimento. Sarebbe come dire, per tentare un paragone, che chi scrive nei messaggi inviati con il telefono cellulare grz e ke invece di grazie e che sta usando un nuovo linguaggio. Questo sarà certamente più funzionale ai ritmi dei nostri tempi, ma sicuramente non arricchirà le nostre capacità di restituire attraverso il linguaggio la complessità del reale.

Nessuna rivalutazione, dunque, e soprattutto nessuna celebrazione. Quello che ci interessa, come sempre, è riappropriarci di quell’immaginario di cui parlavamo prima, anche quando è di basso profilo. Della critica dei singoli film, invece, ce ne occuperemo la prossima volta.

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Manifesto quarta stagione - terza rassegna

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