Domenica 27 novembre:
LE VENDEUR di Sébastiene Pilote, Canada, 2011, colori, 107' - Concorso Lungometraggi
"Vendo auto, tutto qui". E' la frase che riassume un'intera esistenza, quella di Michel (magnificamente interpretato da Gilbert Sicotte), 67 anni, da oltre venti vincitore del premio come migliore venditore della concessionaria in cui lavora.
Il film è ambientato in inverno, in una cittadina del Québec. Michel vive solo, ma ha una figlia e un nipote, che rappresentano l'unico suo legame esterno al mondo lavorativo. Tutto pare filare liscio, come sempre. In realtà, la città sta vivendo una profonda crisi economica. La fabbrica PB è infatti chiusa da 250 giorni, e i 500 operai che vi lavorano vedono, ogni giorno che passa, concretizzarsi la perdita definitiva del posto di lavoro. Inevitabilmente, anche alla concessionaria si presentano sempre meno clienti. In questo clima di depressione, Michel è l'unico che riesce però ancora a vendere. Un'auto nuova a un operaio disoccupato. E quando Michel passa il tempo con la figlia e il nipote, il suo pensiero resta comunque rivolto al lavoro. Chiunque può diventare un cliente. Vendere auto è per Michel non solo il rimedio alla sua evidente solitudine; vendere auto è l'essenza del suo essere e della sua vita. A Michel può essere portato via tutto, fuorchè il suo lavoro. E questa è la vera tragedia del film.
La regia, molto curata, forse solo un pò prevedibile, è perfettamente funzionale al racconto. I momenti più riusciti sono rappresentati dalle sequenze in cui la routine quotidiana subisce delle variazioni e le ellissi narrative vengono spezzate. Sono i momenti in cui la storia si dispiega verso possibili altri percorsi, per quanto minimali, per poi tornare al consueto. Bellissima e toccante per esempio la scena della festa organizzata dal parroco, in cui l'orchestrina locale esegue Romance in Durango, che il regista decide di farci ascoltare e vedere nella sua intera durata: il Canada, la neve, gli operai disoccupati, i balli, Michel e la figlia, le risate, il cibo offerto, la chiesa, la comunità, e una canzone di Bob Dylan che parla di sole, passioni infuocate, amore e morte. Questo sapiente contrasto restituisce, come solo il cinema riesce a fare, la ricchezza di significati che la superficie delle immagini pare nascondere.
Timidi e tiepidi applausi alla fine della proiezione. Peccato, perchè per quanto auspicabile non pensiamo sarà facile riuscire a vedere in concorso film altrettanto validi di Le vendeur.
Un film veramente bello. Notevoli tutte le attrici e tutti gli attori, sicuramente anche per merito della regista Debra Granik. In particolare spiccano la protagonista Ree, interpretata da Jennifer Lawrence, e John Hawkes, nel ruolo di Teardrop, lo zio di Ree, una via di mezzo tra il Dennis Hopper di Rumble Fish e l'Harry Dean Stanton di Paris, Texas. Ambientato in una poverissima provincia del Missouri, il fim - costruito sulla ricerca del padre da parte di Jennifer - impressiona per la capacità di evocare, senza mai mostrarla veramente, una violenza primordiale, brutale ed estrema, che pare essere l'unica ancora di sopravvivenza dei "miserabili" personaggi che via via Ree incontra sulla sua strada. Un'inquietudine che ricorda quella provocata, sebbene poi declinata su altri registri, dalla visione del primo Texas Chainsaw Massacre. Bella anche la colonna sonora, in particolare la scena del compleanno, in cui un'improvvisata band suona un paio di intensi brani country. Dispiace solo averlo visto doppiato. In lingua originale certamente il film rende ancora di più.
A una settimana dai riots londinesi, il novantenne Chris Marker realizza un video di poco meno di 3 minuti utilizzando alcune foto tratte dal Times. Il brano musicale che accompagna le immagini sembra essere una canzone già utilizzata ne I 400 colpi di Truffaut.
Ci sono molti modi per vedere un film. Con gli occhi, con la testa, con il cuore. Alcuni, sono come un colpo di fulmine, altri ti prendono allo stomaco. Altri ancora, a naso, lasciano dei dubbi. Dei film di Lars Von Trier, per esempio, non ci siamo mai veramente fidati. Personalmente, vidi Europa alla sua uscita, e ci capii molto poco. Le onde del destino, lo difesi con gli amici che lo trovavano ridicolo, nonostante la fatica della visione e le perplessità sui "contenuti". Avevo voluto "concedere" un'opportunità al regista, pensando che al fondo di tanta esibizione del dolore vi fosse dell'umana pietà. Insomma, che non si potesse essere davvero così meschini da divertirsi con i sentimenti altrui e passarla liscia. Dancer in the dark, qualche anno dopo, mi dimostrerà che mi ero sbagliato. Non c'era molto da difendere. Da allora non sono più riuscito a vedere un film di Lars Von Trier. Il suo è sì un cinema della crudeltà, ma verso lo spettatore. Questi è la vittima di un gioco sui sentimenti, sulle emozioni e anche sul pensiero, fine a se stesso. Nei film di Von Trier non vi è alcuna tragedia, alcuna catarsi. Solo eccessi, che traggono in inganno. Ma sarebbe anche sbagliato considerare Von Trier un sadico. Ciò che abilmente viene fatto apparire profondo e intenso, altro non è che gretto cinismo. Il sadismo, quello vero, quello del marchese de Sade, in realtà - giustamente - lo terrorizza. A lui è sufficiente giocare col ruolo che il suo talento innegabile gli ha permesso di costruire, quello del "provocatore organico" al mainstream, per sentirsi realizzato. I premi che puntualmente riceve ne sono la dimostrazione, il suo vero successo.
Finchè un giorno, al festival di Cannes 2011, il regista danese si lascia scappare alcune frasi: "Per lungo tempo ho pensato di essere ebreo ed ero felice di esserlo. Poi ho conosciuto Susanne Bier (regista danese ebrea) e non ero così contento. Ma dopo ho scoperto che in realtà ero un nazista. La mia famiglia era tedesca. E questo mi fa anche piacere. Cosa posso dire? Hitler lo capisco. Ovviamente ha fatto molte cose sbagliate, assolutamente, ma riesco a immaginarmelo mentre sedeva nel suo bunker quando tutto era finito. Sto solo dicendo che capisco l'uomo. Certo, non è proprio quello che definiresti un bravo ragazzo ma, sì, ho capito molto di lui e mi fa un po' di simpatia. Su ragazzi ,non sono mica per la seconda guerra mondiale. E non sono contro gli ebrei. Mi sento vicino agli ebrei. Ma non troppo, perché Israele è un dito nel culo"
Poco dopo, viste le reazioni non proprio favorevoli alla sua performance, il regista tutto d'un pezzo redige ben due comunicati stampa, dal momento che uno non era stato sufficiente a smorzare le polemiche. Nel secondo afferma, lapidario: "Tengo sinceramente a scusarmi. Non sono antisemita, né razzista, né nazista". Che smacco, per uno come lui, dovere rinnegare così platealmente le sue false provocazioni. Nel momento in cui si è trattato di scegliere se smontare il suo personaggio o rischiare probabili ritorsioni nell'ambiente cinematografico, il regista danese non ha avuto dubbi. Meglio perdere la faccia che perdere dei soldi.
Nel 1995, se non erro l'anno, Von Trier si presentò a Cannes con altri registi facenti parte del collettivo "Dogma". Sul tappeto rosso fecero la loro passerella accompagnati dalle note dell'Internazionale, marciando a pugno chiuso. Per caso von Trier era comunista e ora è diventato nazista? No, niente di tutto questo. Von Trier, dovrebbe essere chiaro ormai, non è uno che fa sul serio. Che siano passerelle, conferenze stampa o pellicole. E allora, piuttosto che un suo film, meglio riguardarsi un Pozzetto o un Lino Banfi. Almeno ogni tanto si ride, e non ci si sente presi in giro.
Un film bestiale, al di sotto della decenza. Talmente rozzo da escludere qualsiasi tipo di interpretazione che non rimandi al film stesso; in altre parole, in questo che è un film di guerra, non si può nemmeno parlare di metafora di un qualunque conflitto realmente in atto, nè tantomeno di paure da esorcizzare o di propaganda pro USA. Qui ci sono soltanto dei soldati che urlano e sparano a un nemico, extraterrestre, che di fatto viene rappresentato come il Male assoluto. E se il nemico è il Male, come si fa a non stare dalla parte dei marines? Tutto viene ridotto alla rappresentazione di due estremi: bene/male, vita/morte, buono/cattivo, giusto/sbagliato ecc. In mezzo, il nulla.
La scena chiave, dal nostro punto di vista, è quella della cattura dell'alieno agonizzante. Per un paio di minuti, forse più, i soldati provano a finirlo, sparandogli raffiche una dietro l'altra, ma questo continua a resistere e non vuole saperne di morire. Ecco allora che il sergente-eroe del film, in questo caso aiutato dalla donna che ha appena salvato (una veterinaria (!)...), prende l'iniziativa e comincia a squartare l'alieno, alternando allo scanno svariate pugnalate mirate a scoprire quale sia l'organo vitale da colpire per uccidere il mostro. La regia indugia non poco nel mostrare questa sorta di autopsia in vita, con l'intento di aggiungere ulteriore repulsione nei confronti del nemico, che risulta composto di vari strati di carne putrida e grigiastra. Una "sapiente" ellissi ci fa poi capire che l'operazione è lunga e impegnativa. Ma quando la cinepresa ritorna sul sergente-eroe, finalmente l'alieno muore. Lui e la veterinaria hanno scoperto che per ucciderlo, bisogna colpire il cuore... Pensiamo che sia sufficiente e ci fermiamo qui.
Questa assoluta riduzione del nemico a puro e semplice oggetto da annientare, aggiunta alla sequela di frasi pronunciate dai marines in combattimento ("vanno giù come birilli", "passaci sopra con le ruote", "hai sentito dolore?" ecc.), e ai vari "yuhuuu", "yippeee", "uohuuu" esclamati ad ogni alieno ammazzato, ci dà comunque conto di un modo di pensare, di un modo di vedere le cose, di ragionare, che non è solo della finzione. Al nemico, che ormai è sempre più nemico assoluto, non viene più concesso nulla. Non c'è spazio per alcun tipo di umanità, perchè già nella sceneggiatura l'umanità è data in esclusiva a una sola delle parti in conflitto. Non vi possono essere sfumature o contraddizioni, perchè altrimenti la storia si complica. Così tutto è giustificabile, e il distacco con cui è girata la scena dello scannamento di cui sopra, provoca involontariamente un'inquietudine che è data dall'indifferenza con cui vengono commesse le atrocità. Se oltre a tutto questo aggiungiamo ancora la banalità di ogni scelta di messinscena e di inquadratura (tutti clichè e tutte cose già viste in decine di altri film), la mediocrità di sceneggiatura e dialoghi (si rimpiange la "creatività" di Berretti verdi), l'utilizzo, incredibilmente spudorato e davvero imbarazzante, della peggiore retorica sull'eroismo dei marines, non si può che concludere che World Invasion sia uno dei peggiori film che negli ultimi anni ci sia capitato di vedere.
Silvia e Graeme sono due amici del Kinoglaz cineforum. Grazie a loro avevamo presentato il film di Giulio Bursi girato sul set di Quei loro incontri di Straub/Huillet, J'ecoute, e lo stesso Giulio Bursi aveva partecipato alla proiezione. Silvia e Graeme sono due artisti apolidi animati da sincero spirito di sperimentazione, eclettici, originali, impegnati. Siamo perciò felici che Fuori Orario abbia deciso di dedicargli dello spazio, e che domani notte il loro film sia finalmente visibile a tutti gli affezionati alle cose (mai) viste.
Per chi ne volesse sapere di più, il loro blog si chiama Terminal Beach. Il blog del film invece è qui.
Sono lontani i tempi di Fantasmi da Marte, quando al festival di Venezia il pubblico in sala accolse con ovazioni e tifo da stadio la pellicola di Carpenter. Oggi, The Ward esce nelle sale italiane praticamente senza una vera promozione, in sordina, e dopo un'anteprima al festival del cinema di Torino che ha sostanzialmente deluso le aspettative. E' cambiato Carpenter o è cambiato il pubblico? Definito da Serge Daney un regista grezzo, e cinematograficamente poco interessante, vedere oggi sul grande schermo un film come The Ward mette un pò di nostalgia. Perchè a noi sembra che ciò che in verità Carpenter voglia farci vedere, è che è possibile realizzare un horror americano senza per forza adattare lo stile alla frammentazione e ai ritmi frenetici del videoclip mainstream, e perchè a noi sembra che tutto sommato Carpenter sia riuscito nel suo intento, oltretutto senza rinunciare ai clichè del genere. Magari ruvido, spesso privo di sfumature, Carpenter resta comunque, ancora oggi, un outsider della New Hollywood, ostinato nell'affermare che un altro cinema è (stato) possibile, e consapevole del proprio ruolo. Come spiega lo stesso Carpenter, "The Ward è un film old school da un regista old school".
Siamo spiacenti di comunicare che, salvo sorprese, il cineforum che normalmente si tiene nei mesi di marzo, aprile e maggio presso il centro sociale Askatasuna, quest'anno non avrà luogo.
Pubblichiamo questa clip tratta dal film "La maschera della morte rossa" di Roger Corman per i seguenti motivi: perchè lo abbiamo appena visto e ci è piaciuto, perchè ci fa pensare ad alcune cose che accadono nel mondo, e perchè ci offre un'immagine del potere e della ricchezza non troppo "indulgente". Sapendo che la realtà è assai più sordida e miserabile.
Poichè consideriamo eccezionali i film di Ciprì e Maresco, abbiamo deciso di riprendere un appello che da qualche giorno sta circolando in rete. Invitiamo a firmarlo, e soprattutto invitiamo tutti coloro che non hanno mai visto un lungometraggio dei due autori siciliani, a colmare la lacuna.
Intanto, ecco i primi minuti del film
E questo è l'appello:
Signor Aurelio De Laurentiis, nel 1995 la Filmauro, società da Lei diretta, si occupò della distribuzione del primo lungometraggio di Daniele Ciprì e Franco Maresco, Lo Zio di Brooklyn, acquistandone in seguito la proprietà da Galliano Juso. Il film non lasciò certo indifferenti: fece discutere e divise la critica e il pubblico italiano, come avvenne tre anni dopo con la seconda opera dei due autori palermitani, Totò che visse due volte. La Sua società si occupò anche della distribuzione home-video del film, dimenticando però di mettere i sottotitoli (com’era avvenuto per le sale) e impedendo così di fatto la possibilità di una fruizione estesa dell’opera. A sedici anni di distanza dall’uscita de Lo Zio di Brooklyn non è oggi possibile reperire il film per l’acquisto o il noleggio, né si ha notizia di progetti di restauro della pellicola, qualora necessario. Siamo a conoscenza del concreto e coraggioso interesse di un distributore francese per ridare vita al film anche fuori dai nostri confini: ma di fatto, dopo un anno, l’accordo non si è ancora concluso a causa dell’inspiegabile e prolungato silenzio della Filmauro. Questa situazione non è più accettabile e dunque le chiediamo pubblicamente di liberare il film dall’oblio forzato in cui è stato relegato, offrendo la possibilità di vederlo (o rivederlo) a chiunque. Non si tratta certo di un “recupero” da cui attendersi grandi riconoscimenti commerciali, ma crediamo che la restituzione del film al suo luogo naturale, la pubblica fruizione, possa dare un contributo importante a una maggiore conoscenza del cinema italiano anche in altri paesi del mondo. Già Totò che visse due volte, presentato nel 2009 in Francia, ebbe un ottimo riscontro da parte della critica essendo definito da Libération “l’un des meilleurs films de la décennie”. Alla luce di questa precedente positiva esperienza, crediamo giusto e opportuno che Lei ponga rimedio allo stato di abbandono in cui Lo zio di Brooklyn è stato confinato. Le chiediamo, pertanto, di rendere possibile ancora, dopo tanti anni, la visione del film di Ciprì e Maresco a tutti gli appassionati di cinema, in Italia e altrove.
Aderisci inviando il tuo nome e cognome a ilritornodeloziodibrooklyn@gmail.com
p.s. 2012: alla fine, non sappiamo se anche grazie all'appello, il dvd è stato pubblicato dalla Filmauro, in una versione restaurata e ricca di extra. Assolutamente da avere.
Il colloquio dalla psicologa di Antoin Doinel ne I 400 colpi di Francois Truffaut e il monologo - confessione di Pietro nell'omonimo film di Daniele Gaglianone. Epoche diverse, storie diverse, diversi destini. A unirli, uno stesso sguardo di cineasta. Tenero, discreto, inesorabile.
Il cinema di Mike Leigh è soprattutto un cinema di attori. La messinscena e gli ambienti sono lo sfondo - anch'esso significante, ma pur sempre sfondo - sul quale il regista proietta ciò che più gli interessa, ovvero i personaggi. Fondamentale in tutti i suoi film sono dunque i dialoghi e la recitazione. In Another Year essi appaiono più controllati e misurati che in altri suoi film, (Naked, Segreti e bugie) e forse anche per questo il ritratto della famiglia middle classrealizzato in questo ottimo film risulta più crudele di quanto ci si potesse attendere. Ma non bisogna farsi trarre in inganno dalle frasi pubblicitarie per il lancio del film, oltre che dalle recensioni dei quotidiani. Perchè di leggerezza e buoni sentimenti in Another Year non ve n'è nemmeno l'ombra. Tom e Gerri sono una coppia di sessantenni che vive felice una vita agiata e armoniosa. Lei è psicologa, lui geologo. Hanno un figlio, Joe, che fa l'avvocato, e che pare essere l'unico cruccio della coppia, l'unica tessera fuori posto di un mosaico altrimenti perfetto. Per un pò di tempo ci si chiede quale possa essere il problema del figlio, quale l'ipotetica scomoda o dolorosa verità. Joe viene infatti spesso evocato dai vari personaggi, ma non si vede mai, e la sua assenza aumenta la curiosità. Succede però a metà film che anche questa nota apparentemente stonata finalmente si accordi con tutto il resto. Tutto procede per il meglio, e la partitura ora è davvero completa, il disegno perfetto. Cosa può dunque succedere, a questo punto, dentro a questa storia? In questo tipo di film in genere accade che un evento traumatico (un incidente, una malattia) giunga all'improvviso a spezzare l'equilibrio raggiunto, provocando una serie di altri eventi coi quali i protagonisti saranno costretti a confrontarsi e a rivelarsi nelle loro forze e debolezze, miserie e virtù. Non è questo il caso. Più verosimilmente, in questa storia i traumi arrivano, ma colpiscono gli altri , tutti coloro che per quanto vicini alla famiglia, non ne fanno parte. Se ancora lo spettatore avesse dei dubbi sui valori morali che esprimono i due coniugi, da questo momento la coppia-modello scopre le carte, e comincia a mostrarsi per quello che realmente rappresenta. Intanto, i pochi amici che frequentavano la bella casa di Tom e Gerri non si vedono più, definitivamente sostituiti dal figlio e dalla sua fidanzata; la collega di Gerri (in realtà una modesta segretaria), Mary, sola e alcolizzata, un tempo presenza fissa nella vita dei coniugi, è quella che subisce il colpo più duro. In maniera improvvisa e definitiva Mary viene esclusa dal felice quadretto, in quanto colpevole di avere accolto con ostilità l'ingresso in famiglia di Katie, la fidanzata di Joe, dal quale Mary è evidentemente e morbosamente attratta. Sono i momenti in cui appare evidente che Tom e Gerri (tra parentesi, sublime l'ironia nella scelta di questi due nomi) non abbiano altro da offrire agli altri che la riproduzione di loro stessi in identica forma, compresa la loro presunta felicità, superficiale come i rapporti che essi instaurano con il prossimo.
Fondamentalmente, Tom e Gerri sono incapaci di dare alcunchè. La profondità dei sentimenti e delle passioni, soprattutto il dolore e la sofferenza gli devono apparire come una minaccia, e anche i momenti in cui la coppia può sembrare generosa, alla luce dello sviluppo della narrazione si riveleranno come comportamenti puramente formali, o utili al mantenimento di rapporti basati sulla convenienza. A inizio film, Gerri chiede a Mary di sbrigarle alcune pratiche. Mary accetta di buon grado, con trasparente amicizia, nonostante la sua scrivania sia stracolma di carte. Già qui un occhio attento può cogliere la distanza fra le due donne, attraverso lo sguardo distaccato che la psicologa rivolge alla "povera" segretaria. Quando alla fine del film Mary, ormai disperata, implora la presunta amica, Gerri le nega l'affetto di cui avrebbe bisogno e le consiglia di andare in cura da un suo collega, ancora uno psicologo. Ma è solo un esempio. Sono tanti infatti i piccoli segnali inequivocabili che Mike Leigh dissemina lungo il film e che sottolineano l'aridità del cuore nei confronti di ciò che è esterno o non funzionale alla sopravvivenza del microcosmo famigliare. Per fare ancora un esempio, quando la domenica (ogni domenica dell'anno), i coniugi vanno a curare il loro orto in campagna, le ombre sfocate di altre persone degli orti vicini ogni tanto compaiono nell'inquadratura. Eppure mai un saluto, un cenno, una parola viene rivolta a costoro, e viceversa. Ognuno per sè, ognuno chiuso nel suo mondo, ognuno letteralmente ripiegato nella cura del suo orticello, vera metafora del film. Si arriva dunque al finale, il momento più politicamente esplicito. La sensazione che in Another Year vi fosse anche un discorso che avesse a che fare con la suddivisione in classi sociali della società, aleggiava per tutto il film, ma pareva essere più che altro uno fra i sottotesti, e comunque velato. Nella cena conclusiva, invece, tutto appare chiaro: Tom e Gerri, Joe e Katie cenano un'ultima volta con Mary e con Ronnie, il fratello di Tom, appena rimasto vedovo e ai limiti dell'indigenza. L'argomento della discussione a tavola, dato il contesto, è straniante: si parla di viaggi in giro per il mondo, di Australia, di vacanze a Parigi, e infine di soldi. L'ostentazione del denaro e delle possibilità che esso offre mostrano definitivamente la crudeltà di un modello e di uno stile di vita che per reggersi non può che ignorare l'altro, e in fondo, provare disprezzo per chi soffre o è in difficoltà. Solitudine, insuccesso, sofferenza, miseria sono una colpa. Il quadro non può essere macchiato, l'armonia non deve essere spezzata, e tutto ciò deve essere affermato nel modo più spietato possibile: cadono i filtri, l'ipocrisia si palesa, l'esclusione diviene assoluta.
In attesa che un dì riprendano le proiezioni del cineforum (chissà), una volta tanto ho deciso di fare una cosa non consueta per il Kinoglaz: un elenco dei migliori film usciti al cinema in Italia nell'anno appena trascorso, il 2010. Le classifiche lasciano il tempo che trovano, ma molto dipende anche da chi le fa. Quelle che uscivano sui Cahiers du Cinéma, per esempio, non le ho mai trovate inutili. Così come leggere gli elenchi dei film preferiti fatti da registi o critici che ritengo importanti mi ha sempre emozionato e incuriosito. Questa volta ci prova il sottoscritto. Prima di cominciare, una precisazione. Tra i film che mi sono perso, figurano alcuni titoli che, conoscendomi, penso potrebbero modificare l'attuale top ten. Mi riferisco in particolare a Noi credevamo di Mario Martone, La pecora nera di Ascanio Celestini e Uomini di Dio di Xavier Beauvois. Se sarà il caso, in futuro aggiornerò la classifica.
Cosmo Vitelli
10. A single man di Tom Ford.
Elegante nello stile e nella confezione, abbastanza coraggioso per come affronta il tema del film (l'amore, e non solo omosessuale... ) merita la visione per l'ottima interpretazione di tutti gli attori, compreso ovviamente il notevole Colin Firth.
9. Il profeta di Jacques Audiard
Non è il capolavoro che ci dicono sia, ma resta un ottimo film di ambientazione carceraria, con risvolti sociali abbastanza marcati, e una tesi di fondo di cui quantomeno è possibile discutere.
8. Amabili resti di Peter Jackson
In una cittadina della Pennsylvania abita un serial killer che uccide le bambine. A raccontarci la storia, direttamente dall'aldilà, è una delle vittime dell'assassino, una ragazzina di 14 anni, che in realtà vive una realtà sospesa fra questo e l'altro mondo. Ecco, è il limbo immaginato da Jackson ciò che, penso, più interessava il regista. Per quanto mi riguarda, le sue immagini "inventate" sono più interessanti di quelle di Tim Burton o Kusturica. E questa storia è più conturbante di quelle di molti horror e fantasy contemporanei.
7. My Son, My Son, What Have Ye Done di Werner Herzog
Prodotto da David Lynch (e si vede assai... ), un film che non ti aspetti, imperfetto, ambizioso e straniante. Herzog forse a volte eccede con i rimandi alla tragedia classica, a volte con l'inverosimiglianza. Ma in alcuni momenti è capace di farci barcollare, creando sottili inquietudini. Come sempre in Herzog, la Natura lascia il segno.
6. Bright Star di Jane Campion
Un film in costume senza sfarzo, spoglio e freddo, sull'amore fra la giovane Fanny e il poeta romantico John Keats, morto a 25 anni di tubercolosi. Chi si aspettava il classico polpettone sentimentale probabilmente sarà rimasto deluso dal film della Campion, che invece ha optato per una recitazione naturalistica e una messinscena oserei dire materialista, capace di rimuovere l'alone di leggenda e maledettismo che avvolge la drammatica vicenda raccontata.
5. Shutter Island di Martin Scorsese
Ora che ha finalmente vinto il tanto agognato Oscar (nel 2006 con The Departed) Scorsese probabilmente si sente più libero di girare film senza l'ossessione di dover ogni volta competere per la statuetta. Shutter Island rimanda ai b-movies americani degli anni 50, quei piccoli grandi film che hanno fatto e tuttora fanno la gioia dei cinefili di ogni paese. Certo, qui c'è di Caprio e non Dana Andrews, ma lo spirito è quello dei noir di Fritz Lang o Otto Preminger. E allora Shutter Island probabilmente un giorno lo ricorderemo come oggi si ricordano L'alibi era perfetto, Il bandito senza nome o Un angelo è caduto.
4. La bocca del lupo di Pietro Marcello
Un documentario commovente e insolito, ambientato a Genova, sulla storia della relazione fra un uomo e un transessuale. Molto bello l'utilizzo dei filmati di repertorio della Genova e della Liguria del Novecento, e soprattutto il montaggio di tali filmati con il girato contemporaneo. Non penso di sbagliare se affermo che l'influenza di Godard su Pietro Marcello sia stata decisiva. Sicuramente maggiore di quella di Fassbinder, spesso citato come modello.
3. L'uomo nell'ombra di Roman Polanski
Un film come non se ne fanno più, testimone oggi insieme a pochissimi altri titoli di una classicità destinata a scomparire. Il percorso cinematografico di Polanski, da un certo punto di vista, è in realtà a ritroso (un pò come fu quello di Truffaut). Ma è altrettanto vero che con la vecchiaia (pensiamo all'eccellente Il pianista) Polanski ha conseguito un equilibrio stilistico degno dei suoi comunque inarrivabili maestri. La sequenza finale del passaggio del biglietto di mano in mano non è solo una scena "alla Hitchcock". Essa appare piuttosto come un traguardo raggiunto.
2. Lourdes di Jessica Hausner
Sebbene sia piaciuto sia ai cattolici che agli atei (vedi i premi ricevuti), Lourdes resta un film notevole. Il rigore della regia compensa il prevedibile sviluppo narrativo, e lo stile molto "est-europa" e "autoriale" per una volta risulta essere funzionale al racconto e non solo di maniera. Inoltre, la regista austriaca non mi pare una "furbetta" a cui piaccia giocare con i sentimenti e le idee dello spettatore (alla Von Trier o Aronofski, per intenderci). Bellissima la "festa" finale, con una serie di canzoni italiane di successo internazionale, e fantastica la barzelletta che i preti si raccontano in albergo.
N.B. Per evitare di irritare chi non ha ancora visto Lourdes, ho scelto di non inserire il trailer del film. Troppe cose vi vengono svelate.
1. Pietro di Daniele Gaglianone
Forse non è il più bello dei film del 2010, ma sicuramente è il più necessario. Perchè non concede nulla, perchè è il più coraggioroso, perchè è torinese, perchè non è perfetto, perchè Pietro Casella è un grande attore, perchè non piace agli alternativi, perchè è autogestito, perchè è marginale ma non gode di esserlo. Perchè spero non passino altri 7 anni prima di vedere un nuovo film di Daniele Gaglianone.