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mercoledì 28 novembre 2001

Presentazione "Salvatore Giuliano"

Film sull’ambigua figura di Salvatore Giuliano, la cui storia lo vede dapprima dedito al banditismo, quindi abbracciare il movimento indipendentista siciliano per poi finire al soldo degli americani e degli interessi congiunti di mafia locale e politica democristiana.

Si è assistito, specie negli ultimi tempi, ad una certa canonizzazione del personaggio ad eroe dell’immaginario popolare (forse più italoamericano che siciliano); per comprendere quest’ultimo punto urge il confronto col più recente e conosciuto (almeno per un pubblico non cinefilo) IL SICILIANO (Michael Cimino, USA 1987), dove si pretende di poter sospendere la correttezza storica in favore di un impianto spettacolare e di un Giuliano caliente latin lover incarnato nel corpo di Christopher Lambert. Niente di tutto questo nel film di Rosi, girato sul set degli eventi una decina d’anni dopo il loro accadere, e interpretato (per quanto riguarda la massa delle comparse) dagli stessi protagonisti che lo vissero sulla propria pelle. Nulla viene sacrificato all’esigenza della correttezza storica nella resa narrativo-spettacolare di quello che può ben definirsi uno dei più esemplari dei “misteri d’Italia”.

Uno dei momenti culminanti del film – per la pregnanza con cui vengono coniugati correttezza storica e morale filmica – è la sequenza riguardante l’eccidio di Portella delle Ginestre; ad un preambolo dove assistiamo allo scarno dialogo tra due banditi sull’ordine di Giuliano “di sparare ai comunisti, segue l’esposizione filmica dell’evento mostrato dal punto di vista di chi l’ha subito: come dire che sappiamo chi ha voluto e gestito un’infame strage, ma allo stesso tempo ribadire che uno solo è il punto di vista moralmente giusto da cui dover mostrare un simile accadimento e a cui poter prestare il proprio sguardo (a riprova - se ancora ce ne fosse bisogno – che esiste un solo punto GIUSTO nello spazio da cui filmare un evento).

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Manifesto "Salvatore Giuliano"

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mercoledì 21 novembre 2001

Presentazione "Pat Garrett e Billy Kid"

PAT GARRETT E BILLY THE KID (Pat Garrett and Billy the Kid, USA, col., 1973)

Regia: Sam Peckinpah

Soggetto e sceneggiatura: Rudolph Wurlitzer, Sam Peckinpah

Fotografia: John Coquillon

Montaggio: Roger Spottiswoode e altri

Musica: Bob Dylan

Interpreti: James Coburn (Pat Garrett), Kris Kristofferson (Billy the Kid), Bob Dylan (Alias), Richard Jaeckel, Katy Jurado, Slim Pickens, Jason Robards, Jack Elam, Emilio Fernandez

Produzione: A Gordon Carroll/Sam Peckinpah Production, MGM

Durata: 106 minuti (v.o. 123 minuti)

Tipico esempio di cineasta “medio”, Peckinpah realizza con questo film un’opera degna di essere ricordata fra quei pochi western prodotti dopo la fine dello studio-system hollywoodiano capace di non sfigurare accanto ai classici di Ford, Hawks o Anthony Mann. A differenza di molti suoi predecessori (ad esempio lo Stevens de Il cavaliere della valle solitaria) e contemporanei (l’Altman de I compari) Peckinpah assume il genere in quanto tale, limitandosi a caricarne i luoghi comuni, senza tuttavia scivolare nella parodia, nel dissacrante, o peggio ancora in quell’intellettualismo che si vorrebbe di sinistra e che tanti danni ha procurato al cinema e ai suoi spettatori.

Nel film di Peckinpah ci sono due pistoleri, che un tempo erano amici. Il conflitto è determinato da due scelte ben precise: una è quella di Garrett, che decide di passare dalla parte del padrone, il quale lo premia dandogli la stella da sceriffo; l’altra è quella di Billy, che sceglie invece di restare coi suoi compagni, ormai tutti ricercati e fuorilegge. Da qui in avanti sarà tutto un lungo inseguimento, con duelli e sparatorie, fino all’inevitabile epilogo.

È un film, questo di Peckinpah, che una volta tanto mostra con chiarezza che si è ciò che si fa e non ciò che si pensa. Gli alibi lasciamoli agli sceriffi e alle loro coscienze di anime belle.

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Manifesto "Pat Garrett e Billy Kid"

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mercoledì 14 novembre 2001

Presentazione "Il terrorista"

IL TERRORISTA (Italia 1963)

R.: Gianfranco De Bosio;

s.,sc.: G. De Bosio, Luigi Squarzina;

f.: Alfio Contini, Lamberto Caimi;

mus.:Pietro Piccioni;

scg.: Misha Scandella;

m.: Carlo Colombo;

int.: Gian Maria Volontè, Philippe Leroy, Giulio Bosetti, Raffaella Carrà, Josè Quaglio, Cesare Miceli Picardi;

p.: Dicembre Cinematografica/Galatea/Societé Cinematographique Lyre.

Quest'opera anomala e solitaria nella fragile esperienza cinematografica nazionale ritrova oggi una grande importanza proprio nell'essere un'eccezione su ogni fronte. Un fatto unico per gli autori De Bosio e Squarzina, entrambi uomini di teatro, che hanno scelto l'aspetto forse meno trattato della Resistenza in un periodo in cui l'interesse del cinema per questi avvenimenti era sgonfiato da tempo. Dopo i film più (De Sica) o meno (Rossellini) neorealisti che riflettevano sulla guerra e le sue conseguenze, l'immagine della Resistenza aveva connotazioni di spontaneità popolare dove l'azione antifascista faceva a meno di interrogarsi, di creare ruoli, gerarchie, eroi, ed il Partigiano divenne un uomo qualunque, senza classe sociale, nome, titolo di studi o professione, semplicemente Partigiano. In questo film, a partire dall'assoluto del titolo, è proprio questa spontaneità accanita a creare l'eccezione: l'ingegnere Renato Braschi. Ma non è soltanto il protagonista la scelta diversa compiuta dagli autori; Venezia glaciale e anonima, senza le gondole e piazza San Marco è anch'esso luogo e territorio esclusivo che nulla ha da spartire con la quieta meta di turismo nota oggi come negli anni'60. Il volto impassibile, lo sguardo duro, le poche parole; Gian Maria Volontè accentua anche nella recitazione la propria diversità (di scelta di lotta e d'attore), l'irrimediabile condizione di solitudine dell'autentica guerra spontanea che nel film appare molto lontana dai piccoli o grandi interessi all'interno del CLN con cui l'ingegnere non verrà mai in contatto. Se da un lato la messa in scena di De Bosio accusa la difficoltà di reggere un discorso con il linguaggio cinematografico del proprio tempo ha l'indiscussa qualità di sottrarsi con umiltà dal dibattito girando un film corretto, che mai abusa dei facili mezzi retorici e colonialisti dello spettacolo. L'ultima sequenza è forse la più diretta chiave di lettura della regia: poche inquadrature silenziose incorniciano il tragico epilogo, immagini semplici, severe come Renato Braschi che cade in un attimo, poco prima che la macchina da presa torni su quella Venezia che proprio non riesce a riprendere e su quel mare che non può che rievocare l'ultima immagine di Paisà. Ciò che forza a riflettere è il fatto che proprio il terrorista è l'unico che si interroga lucidamente sul futuro mostrando il timore della società che verrà dopo la certa vittoria contro i fascisti: "...pace e benessere fanno comodo a tutti..." dice alla moglie temendo che pane e minestra possano portare in altro modo il popolo ad accettare serenamente il peggior stato di cose, questa considerazione era chiaramente un riferimento al periodo in cui il film fu girato (1963) ed una critica all'assenza di militanza in cambio dei beni (cioè mali) del galoppante regime capitalista. Malgrado la partecipazione al festival di Venezia ed alle diverse critiche positive ottenute alla sua uscita questo film fu nell'immediato poco visto e subito dimenticato.

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